Pubblicato da Andrea Sisti il 29 Gennaio 2012 in Letteratura
Voltaire, Spinoza e l’Illuminismo radicale
Il 20 febbraio 1929, scrivendo a Frank Belknap Long, un grande ammiratore della scienza chimica, fisica e astronomica del Sei-Settecento come Howard Phillips Lovecraft affermò che: «solo le menti più evolute di un popolo di filosofi, come i Greci, furono capaci, in una fase in cui mancavano e i metodi e gli strumenti di ricerca scientifici, di fare un po’ di luce e di coltivare quella scuola della filosofia atomistica, di cui Leucippo e Democrito, Epicuro e Lucrezio (a Roma) furono i massimi esponenti. Dopo Roma, il buio – e dopo il Rinascimento, una debole ripresa. Quindi, gli albori della scienza e il risveglio del razionalismo – quello imperfetto, esitante, insicuro, del diciottesimo secolo – l’età degli enciclopedisti francesi e dei deisti inglesi – di Gibbon, Hume, Swift, Lord Bolingbroke, Thomas Jefferson e Thomas Paine» (H.P. Lovecraft, L’orrore della realtà , a cura di G. de Turris-S. Fusco, Roma, 2007, pp. 110-111).
Oggi, il deismo di cui parlava Lovecraft – innamorato del Settecento, in particolare inglese – viene studiato e ricordato, tutto sommato, da pochi, raramente poi in rapporto al presente. Un’eccezione è rappresentata da Jonathan Israel, docente di Storia moderna all’Institute for Advanced Study, presso l’Università di Princeton, in procinto di terminare la sua monumentale storia dei Lumi radicali, i cui primi due tomi (Radical Enlightenment ed Enlightenment Contested) sono già apparsi. Ha osservato Israel che democrazia, libertà di pensiero e di parola, tolleranza religiosa, libertà individuale, auto-determinazione dei popoli, pari equità di sesso e razza sono valori divenuti tali storicamente – e non senza drammi e sofferenze – solidamente entrati a far parte del pensiero dominante, da quando sono stati esplicitati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948). Si tratta di ideali che non paiono oggigiorno più radicali, ma solo poiché vi siamo abituati. In realtà la loro origine – come del resto certa storiografia ha riconosciuto, anche prima di Israel – fu veramente radicale. Nel suo libro, pubblicato nel 2009 e tradotto ora da Einaudi, col titolo Una rivoluzione della mente. L’Illuminismo radicale e le origini intellettuali della democrazia moderna, Israel, ormai uno dei maggiori storici che si sono dedicati al tema, rintraccia le radici filosofiche delle succitate idee nella corrente storica da lui denominata – peraltro con precedenti illustri, come quello di Margaret Candee Jacob (1981) – Illuminismo radicale, sviluppatosi, in tutta Europa, in seno a quella che Paul Hazard definì «la crisi della coscienza europea», tra XVII e XVIII secolo. Sorto come movimento clandestino – di uomini, di libri e d’idee – in Olanda, Gran Bretagna e Francia, l’Illuminismo radicale maturò secondo Israel in contrasto con l’Illuminismo moderato, corrente dominante negli Stati europei e in America lungo il Settecento. A parere di Israel, l’Illuminismo radicale riuscì allo scoperto durante gli anni Settanta, Ottanta e Novanta del secolo XVIII, quando provocò una vasta e tenace serie di risposte da parte di istituti monarchici, gerarchie nobiliari, sistemi imperiali e gruppi sociali ecclesiastici, in difesa della censura sulla stampa, dell’autorità della Chiesa, della disuguaglianza politica, nonché della vecchia discriminazione religiosa. Israel ha raccontato questa storia, affascinante e contraddittoria, rivelando e sottolineando quella che a suo dire è la sorprendente originalità dei nostri valori fondamentali, non senza affrontare le motivazioni profonde della disapprovazione di cui sono stati fatti e talvolta sono ancora oggetto.
L’interpretazione fornita da Israel può reggere se si resta sul piano di una filosofia della storia. Se si passa da questo alla storia reale, molte sue argomentazioni cadono inesorabilmente. Soltanto alcuni esempi, scelti tra i molti che si potrebbero qui addurre. Intanto, una separazione troppo netta tra lo spirito radicale dei Lumi e quello moderato appare eccessivamente dicotomica, manichea, riduttiva, semplicistica; in una parola: anti-storica. Proprio durante il XVIII secolo, l’Illuminismo moderato e quello più radicale hanno sovente interagito, sovrapponendo i propri piani, combattendo battaglie a volte molto simili. Si sono insomma intersecati e hanno visto intrecciati i propri piani d’azione sotto molti aspetti. Istituire una separazione preconcetta tra i due non regge se non sulla carta d’una storia a tesi, mancando ad essa le conferme empiriche. Si prendano in considerazione proprio personaggi paradigmatici come Spinoza e Voltaire. A partire da loro due, Israel individua nell’Illuminismo una dualità di sistemi filosofici di base. A parte il fatto che il secolo dei Lumi non è stato certo un’età di grandi sistemazioni teorico-metafisiche – anzi, semmai l’è stato l’Ottocento – non si può negare che Spinoza (peraltro, non vissuto nel Settecento) abbia rappresentato la principale fonte ispiratrice del radicalismo illuminista. Tuttavia, anche Voltaire – scaltro e opportunista – per una buona parte della sua vita (soprattutto nella prima metà , ma non solo) fu un philosophe militante, muovendosi proprio su quel territorio di confine tra Lumi moderati e Lumi radicali, che Israel ha preteso a tutti i costi di interpretare in termini di cesura e divaricazione netta. Certo, con Voltaire, i Lumi non si colorarono mai di quelle tinte democratiche che Israel, un po’ forzatamente, vuol cercare e trovare nelle pieghe del pensiero settecentesco. Con Voltaire, indubbiamente, l’Illuminismo rimase una cultura d’elite, e tuttavia proprio questo aspetto lo preservò dalle derive sanguinarie a cui, in nome dell’eguaglianza e della democrazia più complete, andò incontro il giacobinismo, durante il Terrore robespierrista (B. Fay, La grande révolution, 1715-1815, Paris, 1959; F. Furet – D. Richet, La rivoluzione francese, Bari, 1974, pp. 301-305; J. Tulard, Dizionario storico della rivoluzione francese, Firenze, 1989).
Per Israel – non solo in questo libro, ma anche nelle sue due opere maggiori precedenti – è il caso di dire che Spinoza imperat. Anche accettando la sopravvalutazione forse eccessiva che di Spinoza fa Israel, ci si può domandare quale Spinoza. In effetti, il XVIII secolo ha conosciuto molti spinozismi e diversi spinozisti. Non sempre, tuttavia, il loro radicalismo ha sposato soluzioni politiche di segno democratico. A conti fatti e a ben guardare, quasi mai. Cripto-spinoziano in pectore fu il napoletano di origine Bernardo Andrea Lama (morto nel 1760), seguace di Newton, autore di una manoscritta Histoire de la Maison de Savoye, spirito larvatamente radicale, che però operò proficuamente in una dimensione assolutistica, come quella del Piemonte amedeano, nel primo Settecento: in un contesto monarchico e moderato – anzi, conservatore – Lama fu tra coloro che portarono avanti, in accordo con il re e la sua corte, un programma di svecchiamento e laicizzazione della cultura, riformando in particolare i quadri della vita universitaria. Con Lama, dunque, Illuminismo radicale e strutture di Antico Regime si trovarono a convivere. Un discorso non dissimile può essere fatto per un ambiente che Lama frequentò, quello della Vienna coeva. Nella capitale austriaca, a inizio Settecento, cerchie come quella del principe e condottiero di eserciti Eugenio di Savoia – cugino, tra l’altro, di Vittorio Amedeo II – favorirono la penetrazione e circolazione d’idee spinoziane, ermetiche e bruniane. Lo spazio rimase naturalmente quello del Sacro Romano Impero e della dinastia asburgica: aristocratici libertini come Eugenio e il barone di Hohendorf diedero asilo a panteisti, massoni, radicali di varia estrazione politica (anche filo-repubblicana, come nel caso di Toland). Come Lama e a contatto con lui, pure il maggior esponente della storiografia di marca spinozista della nostra penisola, Giannone, risiedette in Austria per un certo periodo, senz’altro quello più felice della sua esistenza. Proprio nel cuore dell’Impero e dei suoi fermenti intellettuali, lo scrittore partenopeo tentò una difficile sintesi di spinozismo e newtonianesimo, cioè di Illuminismo radicale e di Illuminismo moderato. Tra i due si mosse, in Francia, pure Henry de Boulainvilliers (1658-1722). Anche con lui, una filosofia della natura d’impronta spinoziana e un radicalismo dall’ascendenza libertina ed erudita si acclimatarono entro un milieu aristocratico e nobiliare, lo stesso di cui si vantava, in quegli anni, Montesquieu (S. Brogi, Il cerchio dell’universo, Firenze, 1993). In Boulainvilliers, significativamente, si ritrova la commistione di deismo e interessi esoterici (nel suo caso per l’astrologia) che caratterizza la Vienna di Eugenio, Giannone e Toland, unitamente a una caratteristica e condivisa ripresa d’interessi – alle spalle ancora Spinoza, ma altresì Bayle – verso i temi teologici della storia sacra e della rivelazione religiosa (D. Venturino, Le ragioni della tradizione. Nobiltà e mondo moderno in Boulainvilliers, Firenze, 1993).
Agli studi di esegesi biblica si rivolse, privatamente, anche Newton, eletto insieme a Locke a nume tutelare dei Lumi europei. Anche in Newton rinveniamo – confrontando manoscritti, lettere e opere edite – una controversa commistione di conservatorismo moderato e di istanze più radicali. Il fisico inglese mise la propria scienza, gravitazionale, al servizio della Chiesa anglicana e dei suoi quadri, sottoscrivendo e incoraggiando l’opera di contrasto che latitudinari e Boyle Lecturers stavano allora portando avanti contro spinozisti, lucreziani, atei, materialisti e free-thinkers radicali. Il carteggio di Newton e Bentley (1692-1693) lo attesta appieno e senza dubbi di sorta. Eppure, Newton manifestò nelle carte private convinzioni cristologiche decisamente eretiche ed eterodosse. Inoltre – e prima e dopo la sua morte (1727) – il newtonianesimo si presentò, nella cultura europea, strettamente legato al deismo, anche per l’azione di Voltaire, tra Parigi e la Svizzera, e dei Liberi Muratori radicali nelle logge olandesi. A proposito di Newton, quindi, si può forse affermare che la scienza fece da ponte, se non da fattore di unione, tra radicalismo religioso e moderazione politica (durante la Rivoluzione Gloriosa Newton parteggiò apertamente per la causa whig, per divenire poi più conservatore sotto il regno di Anna, quando fu un intimo amico di astronomi e matematici tories come lo scozzese David Gregory). In Newton come in molti altri degli uomini di cultura vissuti tra Sei e Settecento, scienza, tradizione e Illuminismo radicale procedettero pressoché di pari passo, in un muto rapporto di inter-scambio e reciprocamente frammisti. Separare tali momenti altro non sarebbe che far violenza alla stessa fattualità storica, oltre che alla vasta opera newtoniana e alle tensioni spirituali dell’epoca che in essa vediamo ancora oggi riflesse (M. Mamiani, Introduzione a Newton, Roma-Bari, 1990).
Altro personaggio che, vissuto al tempo di Newton, fu amico di Voltaire ed espresse formulazioni non ortodosse sulla figura di Gesù, fu Henry Saint-John, visconte di Bolingbroke. Questi fu un vero protagonista della politica inglese tra XVII e XVIII secolo: fedelissimo della causa Stuart, sino a un dato momento giacobita, avversario tenace di Robert Walpole, Bolingbroke fu e restò un convinto tory. Un conservatorismo che non gli impedì tuttavia di abbracciare il deismo dei Lumi più radicali, che, in lui, si ripropongono legati (B. Cottret, Il Cristo dei Lumi, Brescia, 1992, pp. 179-202). Un percorso affine fu quello di diversi amici del nobile inglese, legati al suo circolo e simpatizzanti per la stessa fazione politica: Gay, Fielding, Swift, Pope ed il medico della regina Anna, il newtoniano John Arbuthnot (I. Kramnick, Bolingbroke and his circle, Ithaca-London 1992).
Restiamo nel mondo anglo-britannico. Nessuno può negare che l’Illuminismo radicale alberghi nel David Hume della Natural History of Religion (1757) e dei Dialogues concerning natural religion (1779) o nell’Edward Gibbon – vero gigante dei Lumi inglesi, come ebbe felicemente a definirlo il grande Franco Venturi – della History of the Decline and Fall of the Roman Empire, composta tra il 1776 e il 1789, ossia tra le due rivoluzioni (americana e francese) nelle quali sfocerebbe a parere di Israel il (latente) spirito democratico dell’Illuminismo radicale. Per quanto diversamente motivata e figlia di ambiti istituzionali differenti – Gibbon studiò a Westminster, Cambridge, Oxford, Losanna; Hume si formò nella natia Edinburgo e fu in seguito a Torino e in Francia – la prospettiva di Gibbon e Hume è certamente radicale nel suo porsi come a-cristiana o post-cristiana. Nondimeno, con loro, anche nelle isole britanniche l’Illuminismo radicale preferì acquartierarsi presso lidi politici ancora una volta moderati (il filosofo scozzese) o accesamente conservatori (lo storico inglese, che – come Edmund Burke – fu un acerrimo nemico della Rivoluzione francese e dei suoi eccessi giacobini, di cui Gibbon vedeva il pericolo nella presenza in Gran Bretagna di figure dissenzienti, come quella, a Birmingham, di Joseph Priestley, chimico e giornalista lui sì apertamente democratico).
Prese di posizione assai prossime a quelle di Gibbon e di Burke giunsero, a fine ‘700, anche da certi esponenti dell’Illuminismo scientifico e tecnico. Tra questi, Benjamin Thompson (1753-1814), più noto come conte di Rumford, tipico fautore di una tecnocrazia illuminata. Nacque in Inghilterra, per sua iniziativa ed analogamente alle nuove scuole scientifiche continentali (l’Ecole polytéchnique di Parigi), il Royal Institution. Rumford lo fondò per risollevare la scienza inglese dal letargo, anche e soprattutto istituzionale, in cui l’aveva fatta sprofondare una Royal Society ormai non più al passo con i tempi. Conservatore di origine americana, animato dalla stessa mentalità pratico-empirica, ad un tempo baconiana ed utilitaristica, del suo connazionale Franklin, egli auspicava un rinnovamento – che, però, avvenisse e dall’interno e dall’alto – dell’Antico Regime, oramai necessario per la sua stessa sopravvivenza, da realizzarsi attraverso l’organizzazione di efficienti servizi pubblici. Il conte di Rumford sperimentò tali principi sociali ed organizzativi durante il suo precedente governo, alla guida del regno bavarese del Sacro Romano Impero, nella cui idea fu l’ultimo a credere, prima che fosse invaso dalle armate napoleoniche e concludesse la sua vita pluri-millenaria nel 1806. Rumford combatté il pauperismo e le ingiustizie sociali. Potenziò l’industria militare. A lui dobbiamo le leggi fisiche circa la trasmissione del calore e la dimostrazione matematica per cui è possibile produrne mediante lavoro. Una volta ritornato in Gran Bretagna, egli comprese che la rivoluzione industriale cominciata nel secondo Settecento si sarebbe in breve arrestata, se non si fossero educati dei nuovi tecnici, capaci di mettere a profitto le scoperte come i risultati della scienza più moderna. Il Royal Institution, in cui si formarono Humphrey Davy e Micheal Faraday, oltrepassando i primevi progetti di Rumford, divenne, via via, un istituto professionale per la ricerca meccanica, che offriva lezioni divulgative e formative. Rumford, da parte sua, auspicò invano l’attuazione del suo piano di lavoro originario – mirante a salvare l’antico con il moderno, coniugando tradizione e Illuminismo – ma le sue idee furono respinte. Non senza diverse dispute, il conte americano finì per lasciare l’Inghilterra e spendere il resto della sua esistenza in Francia. Rispetto al 1799, l’anno in cui il conte bavarese lo aveva fondato, il Royal Institution diventò presto altra cosa, rispetto al progetto originario, finendo con l’assecondare – anziché con il guidare, come lui si era augurato – la rivoluzione industriale in corso. Quanto alle altre due rivoluzioni, americana e francese, il conte di Rumford rimase in fuga da entrambe e di ambedue nemico, convinto che il progresso, tecnico-scientifico e politico-sociale, si dovesse tenere in pugno e indirizzare correttamente per gradi e non subire.
Questo discorso ci conduce direttamente a ridiscutere un altro degli assunti del libro di Israel, quello che vede l’Illuminismo radicale sfociare nell’Ottantanove. Nulla di nuovo sotto il sole, visto che si tratta di un’interpretazione che, inaugurata nel 1856, da Tocqueville, è stata condivisa, nel corso del Novecento, da storici sia culturali (Daniel Mornet) sia sociali (Daniel Roche). Oggi che tale tesi è stata e a lungo ridiscussa, continua comunque ad andare per la maggiore e stupisce un po’ il lettore ritrovarla in un saggio che vorrebbe segnalarsi per l’originalità della propria chiave di lettura. Certo, è innegabile che alcuni valori illuministici (comunque non tutti) confluirono nella Rivoluzione e ne furono una delle basi concettuali. Naturalmente, non vale più lo schema borghesia → Illuminismo → Rivoluzione francese: le premesse di quest’ultima vennero poste dalla rivolta aristocratica di una nobiltà non più disposta a tollerare il dispotismo luigiano (R. Moro, La crisi dell’antico regime in Francia 1776-1788, Firenze, 1975, pp. 37 e segg.). Al riguardo, molti storici si sono fatti abbagliare dalla presa della Bastiglia. Solo tra il 1790 ed il 1791 la Rivoluzione divenne borghese, per farsi poi popolare e repubblicana, tra il 1791 ed il 1793: in questa fase, ad essere influenti, più che le vedute dell’Illuminismo, furono quelle del suo «fratello-nemico», il traditore dei Lumi – le parole con cui, anni addietro, lo aveva apostrofato Diderot – ossia Rousseau. Né qualcosa di vagamente illuminato può rintracciarsi poi nella dittatura termidoriana e giacobina, inaugurata dopo il 1793. Se vogliamo, poi, andare in cerca di simboli, con la morte di Condorcet (1794) morirono i Lumi, anche quelli più radicali. Ne morì, cioè, l’anima voltairiana (quella spinozista era scomparsa, dissolta nella specifica particolarità del caso francese settecentesco, molto prima). Morì la libertà , sacrificata sull’altare di una uguaglianza da concretarsi a tutti costi (anche in termini di vite umane). Vinse Rousseau e perse Voltaire. A partire dal 1792 la Rivoluzione francese di illuministico ebbe sempre meno, anche per il progressivo affermarsi delle idee di patria e di nazione, in nulla settecentesche e figlie, semmai, di un’età nuova, destinata a sfociare anche nel nostro Risorgimento (G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna 1700-1815, Milano, 1978, pp. 189-192).
Ancora. Israel insiste, e non poco, sulla critica illuministica alla guerra e circa la ricerca della ‘pace perpetua’ (per riprendere l’espressione di Kant, contestata dal punto di vista valoriale da Lilienthal a inizio Ottocento). Israel omette però un fatto importante, specialmente per la storia dell’Illuminismo radicale: fra le matrici ideologiche di quest’ultimo vi fu il libertinismo erudito post-rinascimentale e barocco, una corrente che, anche seguendo il Machiavelli più controcorrente e anti-conformista, non fu certo incline alla pace. Al contrario, i libertini furono sempre e quasi tutti favorevoli alle pratiche belliche ed orgogliosi dell’ethos militare. Se ne trovano echi proprio durante il secolo dei Lumi, con Scipione Maffei, al momento del passaggio in Italia dal razionalismo all’Illuminismo vero e proprio (C. Donati, Scipione Maffei e la Scienza chiamata cavalleresca. Saggio sull’ideologia nobiliare al principio del Settecento, in Rivista storica italiana, XC, 1978, pp. 30-71). In linea più generale, la fedeltà all’onore in tempo di guerra e la conquista della gloria sul campo di battaglia non furono dei valori opposti al credo di illuministi e monarchi illuminati. La storia austriaca, inglese, piemontese e francese, già richiamata in causa, è ricca di exempla ricorrenti, che solo un silenzio tendenzioso può mettere da parte artificiosamente. Nel secondo ‘600, Raimondo Montecuccoli fu, a Vienna, soldato di vaglia e gran libertino; dopo di lui, Luigi Ferdinando Marsili seppe unire amore illuministico per la scienza e superiore senso dello Stato. Ai piedi delle Alpi, tra il 1773 e il 1796, la scienza, i Lumi e il dovere militare si incrociarono ancora, durante il regno di Vittorio Amedeo III. E come scordare Federico II di Prussia, il sovrano che più di ogni altro seppe fondere idea di ordine politico-militare e Illuminismo radicale? Fu statista d’antico regime e, congiuntamente, volle a Berlino i più radicali tra gli spiriti colti dell’epoca, francesi (Voltaire, d’Alembert, La Mettrie) ed italiani (Algarotti). Con la venuta nella capitale prussiana di Maupertuis (1740), la cultura francese raggiunse il suo apogeo, altresì linguistico, negli antichi stati tedeschi e la scienza newtoniana si affermò, stabilmente, anche in un’area che, per la presenza di Leibniz e della sua scuola, le era sempre stata ostile. Con Federico il Grande, e durante il suo lungo regno (1740-1786), sapere e potere, cultura ed imperium, scienza e politica, Lumi radicali e buon governo, accademismo letterario ed etica delle armi si armonizzarono e senza eccessivi drammi o problemi (E. Sestan, Scritti vari, V, L’età moderna, a cura di R. Pasta, Firenze, 2011, pp. 95-105, 311-321).
Tutte le sfumature ed i dettagli storici sin qui rievocati credo contribuiscano a chiarire quanto risulti troppo monotematico e uni-direzionale, viziato oltretutto da un fastidioso teleologismo, il quadro di insieme tratteggiato, non senza pregi peraltro, da Israel. La verità è che è esistita storicamente – nel corso del Settecento europeo e atlantico – proprio ciò che il professore di Princeton nega: vale a dire una ‘famiglia di Illuminismi’ – rigorosamente al plurale, come plurale e cosmopolita fu d’altra parte il XVIII secolo – da studiarsi con la necessaria attenzione per le differenze nazionali e confessionali tra i Lumi di diverse parti d’Europa. E’ l’angolo visuale dal quale, negli ultimi tre decenni, ai Lumi hanno guardato grandi storici, come John Pocock, a cui dobbiamo, appunto, il concetto di ‘famiglia di Illuminismi’. Israel ne revoca in dubbio presenza e azione storica solo in quanto tale sfumatura si rivela inapplicabile alla sua immagine del pensiero illuministico. L’autore di Una rivoluzione della mente lo dice a chiare lettere. Eppure, non è vero che seguire le indicazioni storiografiche di Pocock e dei suoi sostenitori tagli fuori le questioni e le controversie più basilari e di maggiore portata della storia culturale settecentesca. Vale l’esatto opposto: piuttosto, le contestualizza, ne approfondisce il significato e la reale collocazione, ne precisa contorni e ambito di appartenenza. Detto altrimenti, le restituisce alla storia, senza rigide generalizzazioni o schematisti fuorvianti. Non si afferma qui che Israel non abbia colto il messaggio globale dell’Illuminismo radicale. Semplicemente, si sottolinea, nel rispetto dovuto al libro, che esso esce dalle sue pagine decontestualizzato e privato di autentiche radici storiche. L’esatto contrario, ritengo, di quanto l’Autore si augurava di fare. Il problema è che la storia non si lascia mai volentieri imbrigliare da etichette o definizioni, risultando sempre ben più complessa di quanto la vuol far passare chi la ricostruisce e racconta. E’ esistito, indubbiamente, un Settecento riformatore – per riprendere in questa sede il titolo del capolavoro, in più volumi, scritto da Franco Venturi – e, accanto ad esso, talvolta intrecciato con quest’ultimo, un Illuminismo di tipo più ‘conservatore’ (e non è un ossimoro, né un paradosso) che spesso – in Austria, Savoia e Regno Unito – non ha rinunciato a tingersi di colori radicaleggianti. Pocock, in moltissimi sui saggi, lo ha superbamente illustrato, in rapporto ai contesti spaziali anglo-americani. Più in generale, non si può, né si deve, forzare le credenze del passato in funzione di quelle del presente. Ricercare nei Lumi più radicali un’ipotetica e presunta alba della democrazia contemporanea appare cosa difficile, lontana dal vero dell’autentica storia settecentesca, in definitiva deteriore. Semmai, vi è molto più spirito di democrazia in certe iniziative del Bonaparte meno demagogico, il quale peraltro con l’Illuminismo non ebbe mai nulla a che fare: si pensi soltanto all’antipatia che egli nutriva verso gli Idéologues (G. Lefebvre, Napoleone, Bari, 1960; S. Moravia, Il tramonto dell’Illuminismo. Filosofia e politica nella società francese 1770-1810, Roma-Bari, 1986).
Ultima considerazione. Mai un riferimento, in Israel, neanche quelli che sarebbero stati poi dovuti, all’opera sunnominata di Venturi. Un’omissione che pare frutto di una scelta e che fa sorgere nuovi sospetti nel recensore. La cosa, da strana diventa imbarazzante se si pensa che a stampare in italiano la traduzione del libro di Israel è stato Einaudi, l’editore per eccellenza di Venturi. Un sorriso amaro – è inevitabile – non può che comparire a questo punto sul volto di chi scrive.
Davide Arecco