Pubblicato da Andrea Sisti il 8 Gennaio 2012 in Letteratura

L’arte della guerra e la Rivoluzione scientifica: dalla téchne all’estetica della guerra

L’anima nera del mio intervento si annida nel riferimento ai temi della guerra e delle armi da fuoco, temi che, in virtù del significato emotivo delle parole, hanno un immediato impatto negativo. Essendo il mio intervento concepito all’interno di una lezione di Storia della Scienza e della Tecnica, e quindi di valenza limitata all’ambito storiografico, non intendo sollecitare un dibattito di natura etica (anche perché non siamo nell’ambito di Filosofia della Scienza), dibattito peraltro impossibile di risoluzione.

Certo, le parole “guerra” e “armi” sono cariche di  significato emotivo negativo, alla stregua della parola “comunismo” proposta all’uomo medio americano dell’era maccartista, pronto a giurare sul fatto che il comunismo fosse esecrabile, pur esitando a darne una definizione in termini di significato descrittivo. Il mio invito, allora, è rivolto ad una preliminare operazione di “igiene mentale”, per usare una espressione di Comte, volta ad evitare l’idolo baconiano del pregiudizio, che impedirebbe una serena valutazione dell’argomento.

In verità, ci ammoniva Manzoni nel suo capolavoro, non ci dovrebbero essere bastoni né bastonate, ma tant’è… Ricordiamo il pacifismo degli Svizzeri, “pacifici perché ben armati”, annotava Machiavelli. Se ne avvide Hitler quando minacciò la Svizzera, sentendosi rispondere che ogni cittadino conservava nell’armadio il suo fucile d’ordinanza, pronto all’uso. Un aneddoto personale come inciso: in un colloquio con un cittadino svizzero intorno all’ipotesi di un improbabile conflitto italo-svizzero, mi sono sentito rispondere con un sorriso che l’Italia avrebbe perso la guerra in un solo giorno!

Oggi il mio proposito è solo quello, nell’ambito di un discorso di ordine storico, di fermare l’attenzione sulle tappe dell’evoluzione tecnico-scientifica dei contenuti, con un occhio di riguardo alla storia delle idee ed ai rapporti tra potere e orizzonte tecnico-scientifico, nonché alle nuove scienze collegate, come la balistica e la nuova scienza delle fortificazioni.

Oltretutto, la misoplia – se non vi piace il neologismo diciamo il misoneismo degli strumenti di guerra – “non solo ha l’effetto di ritardare lo sviluppo tecnico e scientifico dell’arte militare e delle scienze collegate, ma da sempre ha portato conseguenze nella sicurezza e nella estensione di uno Stato, che si è trovato in condizioni di inferiorità verso gli altri Stati” (Musciarelli, Dizionario delle armi, p. 279). Ricordiamo l’avversione alle balestre, condannate dal Concilio Laterano II, che ne proibì l’uso nelle guerre fra cristiani a causa della loro micidialità, alle armi da fuoco, poste al bando da cavalieri, letterati e dalla Chiesa che le giudicò “troppo omicide e spiacenti a Dio”, alla rigatura delle canne, alla introduzione del sistema a retrocarica e della ripetizione, soluzioni ritenute inutili se non dannose.

Un esempio di conseguenze negative per il nostro Paese? Il misoneismo dei vertici militari verso il carro armato, ignorato nella Prima Guerra Mondiale e prodotto solo dopo il 1930, con i tristi risultati della Seconda Guerra Mondiale. O verso gli aerosiluri (siluri lanciati dagli aerei) ritenuti inutili nel 1938 (ma i Tedeschi, alleati col Patto di Acciaio, ne richiesero il segreto), col risultato che nel novembre 1940 gli aerosiluri inglesi distrussero metà della nostra flotta ancorata nel porto di Taranto (Musciarelli, op. cit., ibid.).

Federico Chabod, nel suo contributo alle interpretazioni della Rivoluzione rinascimentale, intende con questa espressione quell’ampio processo storico che ha rinnovato profondamente il mondo europeo portandolo dalla civiltà medievale alle soglie di quella moderna. In tal senso, raggruppa le trasformazioni culturali intorno a tre fatti fondamentali: la nuova concezione dell’uomo, della natura e di Dio; la frattura tra Chiesa cattolica e Chiesa riformata; la elaborazione del metodo matematico-sperimentale con il conseguente avvio alla scienza moderna. Chabod afferma che, oggi, si comincia a comprendere che questo ultimo fu, forse, il fatto più importante.

Subordinato a quest’ultimo in ordine di importanza, ma pur sempre momento propulsivo di sviluppo della scienza moderna nel suo vitale legame con lo sviluppo della tecnica, collocherei un quarto fatto fondamentale per la Rivoluzione rinascimentale, e precisamente la scoperta, o meglio, la razionalizzazione della scoperta della polvere da sparo.

La storiografia contemporanea che ha per oggetto di studio le dinamiche del potere in Europa nell’età moderna, ossia il fenomeno della formazione dello Stato moderno come potere accentrato e assoluto, ha fissato i tre fattori alla base di questo processo, e precisamente: l’esercito, la burocrazia e la finanza. Fermiamo l’attenzione sul primo. Lo storico L. Stone ha messo in rilievo il ruolo fondamentale dell’esercito permanente anche in tempo di pace, le trasformazioni verificatesi nel campo dell’arte militare come l’uso dell’artiglieria, l’accresciuta importanza della fanteria e degli arcieri a scapito della cavalleria e l’uso di flotte di grandi dimensioni. Le suddette trasformazioni hanno il comune denominatore nella scoperta, o meglio, nella razionalizzazione della scoperta della polvere da sparo che, pur presente nell’autunno del medioevo, solo ora, nell’età moderna, è considerata strumento della politica di potenza dei principi nelle guerre di predominio in Europa.

Con ciò stesso, ci siamo riportati al problema storiografico affrontato da Chabod, e precisamente il problema del rapporto di opposizione o di continuità tra Medioevo e Rinascimento. La teoria della frattura, che ha avuto un grande successo nella storiografia dell’Illuminismo, ripresa successivamente nel 1860 dal Burckhardt, ha dimostrato però gravi insufficienze di metodo che hanno aperto la strada alle teorie della continuità che mettevano in luce gli elementi comuni al Medioevo e al Rinascimento. Oggi la storiografia ha privilegiato la tesi della continuità, che peraltro comporta il problema di salvaguardare la specificità dei singoli periodi storici. Lo Chabod suggerisce, come risposta, di “evitare un grossolano equivoco: confondere vita pratica e vita di pensiero, azioni quotidiane degli uomini e consapevolezza raziocinante che l’uomo può avere o meno di questo suo agire” (Chabod, Nuove Questioni di Storia Moderna, vol. 1°, pp. 176-178). Mi spiego facendo riferimento al nostro argomento di fondo: il ruolo della polvere nera nella Rivoluzione rinascimentale. La polvere nera – così detta alla fine ‘800 per distinguerla dalle più moderne polveri senza fumo: prima si parlava solo di polvere da sparo – era già nota alla fine del Medioevo ma rappresentava una realtà di fatto, utilizzata per razzi, fuochi di artificio ed altri divertimenti pirici, e non una realtà di pensiero. Così, con un parallelo illuminante, l’uomo medievale amava la bellezza delle donne e la piacevolezza del vivere non diversamente dall’uomo moderno, ma non ne aveva consapevolezza da tradurle in termini concettuali, di riflessione, per cui bisogna aspettare Lorenzo Valla per trovare uno scritto sulla “dolcezza del vivere”. Tornando alla polvere nera, pur nel rispetto del rapporto di continuità tra Medioevo e Rinascimento, possiamo salvare la specificità dei due periodi ricordando che la sua presenza, nel Medioevo, era un puro fatto quotidiano che rientrava nell’agire pratico di questo o quel personaggio, mentre nell’età moderna la sua presenza, come quella delle armi da fuoco, è sistemata concettualmente negli scritti di Machiavelli, Guicciardini, Ariosto e quanti altri si pronunciarono sulla sua realtà, immorale per i nostalgici degli ideali cavallereschi dell’età di mezzo, amorale per i teorici della politica di potenza degli Stati assoluti e accentrati in gara tra loro.

Vediamo, ora, a che titolo possiamo inserire la scoperta della polvere nera tra i fatti fondamentali che sono alla base della Rivoluzione rinascimentale.

Per il Barnes, autore di un testo classico in materia di cartucce, “la scoperta e lo sviluppo della polvere da sparo costituiscono uno degli eventi più importanti della storia del genere umano… la nostra civiltà moderna sarebbe stata impossibile senza di essa” (Barnes, Cartucce, ed. it., p. 315).

Chi ha inventato la polvere da sparo? Impossibile dire chi, dove e quando. Il problema storiografico legato alla difficoltà di dare una risposta è costituito dal fatto che “coloro che sanno tutto di armi e di polvere da sparo, sanno pochissimo di storia, e d’altra parte gli storici eruditi raramente sono ricordati come grandi esperti in armi da fuoco” (Barnes, op. cit., ibid.).

Molti hanno confuso il fuoco greco con la polvere nera. Il fuoco greco è il nome collettivo di varie miscele incendiarie, usato nelle battaglie navali del VI secolo d.C. Vediamo, per curiosità, la ricetta personale di Leonardo: “Tolli carbone di salcio e salenitro e sulfore, incenso e canfora e lana etiopica e fai bollire ogni cosa insieme. Questo foco è di tanto desiderio di brusare, che seguita i legname sin sotto l’acqua” (L. Bulferetti, Leonardo: l’uomo e lo scienziato, p. 43).

Ma chi ha inventato la polvere nera? Mancano notizie precise e molti popoli se ne sono contesi il merito. L’invenzione è stata attribuita a Salmoneo re di Tessaglia, a Caligola, al siciliano Salios verso l’anno 60 d.C. Per Barnes la polvere nera è realizzata dai cinesi verso il 900 d.C., forse anche nel 700. La chiamavano “huo yao”, letteralmente “sostanza chimica di fuoco” e il termine compare dal 1040 in poi. Dalla Cina sarebbe stata trasmessa ai musulmani. Per altri, si sarebbe verificato il processo inverso: dal mondo musulmano verso la Cina e l’Europa. Tutto indica “che la polvere nera fu introdotta in Europa attraverso la Spagna dai Mori invasori” (Barnes, op. cit., ibid.). Il Musciarelli nega l’ipotesi di una origine cinese rifacendosi proprio al Milione di Marco Polo (che i cinesi avessero polveri piriche non significa l’invenzione della polvere nera). Per l’autore, è probabile che parecchi alchimisti tra il 1000 e il 1200 abbiano scoperto sostanze esplosive composte con salnitro, carbone e zolfo, per cui la polvere nera sarebbe stata inventata, contemporaneamente, da vari artefici e in diversi Paesi.

La posizione del Barnes resta comunque interessante perché impostata sul problema della libertà di espressione, coartata per ragioni disciplinari dalla Chiesa, in base alla quale risulterebbe improbabile che la polvere nera e le armi da fuoco siano state inventate in Europa proprio perché non c’erano le condizioni di libertà intellettuale, laddove Cina e mondo musulmano erano centri di scienza e sperimentazione nel periodo in cui apparve la polvere nera.

Una prima conclusione: la polvere nera era conosciuta come esplosivo ed era usata nei fuochi d’artificio o razzi, ma non ne era noto l’utilizzo bellico. Il Musciarelli propone una rassegna dei possibili inventori. La fonte più attendibile, Ruggero Bacone (1214-1294) ne accenna nella sua Opus Majus del 1267, descrivendo l’esplosione della polvere nera che “tuona e lampeggia”; in questa sede, però, non dice di averla inventata, ma solo che era ben conosciuta in quegli anni. Bacone ne dà la composizione nell’opera De secretis operibus artis et naturae et de nullitate magiae – peraltro in termini poco chiari per il ricorso a un linguaggio criptico – prevedendone l’uso delittuoso. Però non aveva alcuna idea del suo uso come propellente e la sua formula prevedeva sette parti di salnitro contro cinque di carbone e zolfo. Ricordiamo che Bacone soggiornò in Spagna e da lì potrebbe aver derivato le sue conoscenze sulla polvere nera.

Un’altra fonte è Alberto Magno, che nel suo De mirabilibus mundi cita la polvere nera senza però darne la composizione. C’è, poi, lo scritto Liber ignium ad comburendos hostes attribuito al monaco Marco Greco, vissuto, con qualche dubbio, nel IX secolo d.C.; la parte in latino sarebbe stata aggiunta nel XII secolo, traduzione probabile di un’opera araba; nello scritto si parla di polveri piriche utili forse a produrre solo una fiammata ma non a propellere un proiettile. Circa il famoso Bertold Schwartz, si dice abbia condotto esperimenti con la polvere nera e il cannone a Freiberg. E’ molto improbabile che abbia inventato la polvere nera che era già nota quasi un secolo prima, mentre è possibile che abbia migliorato il rozzo cannone di quei tempi. Comunque, in ogni caso, quando è nato (ammesso che sia esistito), le armi esistevano già. Per Vincenzo Tumbiolo (Il manuale dell’avancarica) è probabile che tra il 1000 e il 1200 sia stata inventata in molte parti del mondo e ne siano stati scoperti gli effetti bellici più o meno contemporaneamente. Esclude però cinesi, indiani e arabi quali scopritori della miscela esplosiva.

In conclusione, l’unica cosa certa è che la polvere nera è nota in Europa dal 1300; che nel 1325 i cannoni si erano già affermati in Europa e che dal 1350 in avanti sempre maggiore diventa la quantità di dati disponibili sullo sviluppo delle armi da fuoco. Il Codex Germanicus, scritto in latino tra il 1350 e il 1400, spiega come preparare la polvere nera, caricare i cannoni ed altre questioni relative alla artiglieria.

Vediamo ora i rapporti fra scienza e tecnica relativamente al nostro argomento. Le maggiori richieste tecniche nell’età moderna rivelano l’insufficienza della figura tradizionale dell’artigiano, incapace di risolvere i nuovi problemi che si affacciano, spinto, per ciò stesso, a rivolgersi a studiosi in possesso di più ampie nozioni matematico-fisiche. Nel nostro caso avremo che gli artigiani delle armi da fuoco richiedono informazioni ai matematici intorno alla traiettoria dei proiettili; viceversa, avremo scienziati che “ascoltano” le osservazioni di modesti artigiani per carpire notizie della loro annosa attività. Si profila allora quella alleanza tra tecnici e scienziati che è una caratteristica fondamentale della Rivoluzione scientifica, e che permette il superamento della millenaria frattura fra i due momenti, quello della scienza pura e quello delle applicazioni tecniche. La mirabile sintesi la troviamo nel genio leonardesco.

Il pregiudizio positivistico, di stampo intellettualistico, che vedeva l’origine delle scoperte scientifiche esclusivamente in fattori razionali e sperimentali, ha lasciato il posto ad una più realistica considerazione delle componenti non razionali (religiose, metafisiche, pregiudiziali, casuali) che ne sono alla base. Consideriamo la componente casuale: la caduta di una mela è alla base della legge di gravità scoperta da Newton, così come la combinazione meccanica di salnitro, carbone e zolfo, è alla base, in più momenti e in più luoghi, nelle oscure botteghe di alchimisti, della scoperta della polvere da sparo. La scoperta, alla fine dell’800, delle moderne polveri senza fumo, che soppiantano la polvere nera, è dovuta al caso: una bottiglia di acido nitrico rovesciata incidentalmente sopra un foglio di carta ha prodotto la nitrificazione della carta, cioè la nitrocellulosa, che è alla base di tutte le polveri monobasiche (quelle bibasiche associano la nitroglicerina). Dunque, una cosa è la genesi delle scoperte scientifiche, altra la loro verità, che è poi quello che ci interessa: la loro oggettività e la conferma sperimentale alla loro pretesa di verità.

L’unità di scienza e tecnica – la prima momento teorico, la seconda momento pratico-operativo – è parallela allo sviluppo delle matematiche, considerate nel Rinascimento in una luce nuova e non più sottoposte alle rigide auctoritates del mondo antico, intendo Platone, che disprezzava, come Euclide, ogni possibile impiego pratico della matematica, ed Aristotele, che la annoverava nell’ambito delle scienze teoretiche, separandola nettamente da quelle pratiche e poietiche. Un esempio, invece, della utilizzazione della matematica nell’ambito tecnico-pratico, volto alla sfruttamento razionale delle artiglierie nell’età moderna, vede l’applicazione delle sezioni coniche studiate nell’antichità da Apollonio nello studio della traiettoria dei proiettili (la parabola) (cfr. Abbagnano-Fornero, Storia della Filosofia, pp. 120-126).

L’esigenza di individuare i miglioramenti tecnico-strategici dell’arte della guerra – dove il termine arte è riconducibile al remoto significato platonico di procedimento ordinato, cioè conforme a regole, di una qualunque attività umana, nel presente caso della attività bellica – è contestualizzata sullo sfondo del nuovo tipo di società che si affaccia all’inizio dell’età moderna. Alla base del processo di formazione dello Stato moderno, inteso come organismo accentrato e assoluto, la storiografia contemporanea  ha individuato tre fattori chiave quali l’esercito, la burocrazia e la finanza. Il primo e terzo fattore, tralasciamo il secondo, sono strettamente correlati nella gara tra le grandi potenze che aspirano al predominio europeo, come la Francia che, visti i rapporti pacifici con l’Inghilterra, ha mano libera nella politica di espansione nel continente. Cambiamento tra i più significativi fu anche il nuovo rapporto tra Stato e cittadini sotto il profilo finanziario. C’era una azione di causa-effetto biunivoca tra la costruzione di un apparato fiscale che permettesse un regolare prelievo di denaro per reggere le enormi spese della guerra e la frequenza di guerre finalizzate a procurarsi denaro con la sottomissione di regioni ricche e il controllo delle vie commerciali. In parallelo, si facevano più guerre per procurarsi più denaro e si costruiva un apparato fiscale per prelevare nella massima efficienza il necessario per sostenere le spese della macchina bellica. Come scrive il Telly, storico americano: “Durante il XVI secolo, man mano che la guerra faceva crescere le spese statali in gran parte del continente, gli Stati europei cominciano a regolarizzare ed espandere i bilanci statali e le tasse [….] La guerra ha costruito la rete degli Stati nazionali in Europa e la preparazione della guerra ha creato le strutture interne degli Stati stessi. Gli anni intorno al 1500 furono cruciali. Gli Europei avevano cominciato ad usare polvere da sparo nelle guerre verso la metà del XIV secolo; nei seguenti 150 anni, l’invenzione e la diffusione delle armi ha fatto pendere la bilancia a vantaggio delle monarchie che si potevano permettere i cannoni e le nuove fortificazioni che i cannoni non avrebbero potuto facilmente distruggere[…]. Intorno al 1500 i costi crebbero ancora allorché l’artiglieria mobile per gli assedi e la fanteria che l’accompagnava si diffusero ampiamente[…]. Gli Stati più grandi, soprattutto la Francia e l’impero asburgico, avevano le dimensioni giuste per affrontare i costi crescenti e trarre vantaggio da questa situazione” (C. Telly, L’oro e la spada, pp. 88-90, in: Bonanno, L’età moderna nella critica storica, pp. 21 e 41-42).

I sovrani controllano le finanze, aggravando il carico fiscale e promuovendo una politica economica tesa a regolare gli scambi in senso mercantilistico, così da far entrare moneta all’interno dello Stato impedendone l’uscita, esportando cioè e non importando, il che, annota lo storico Giorgio Spini, si traduce in una latente politica di aggressività. La politica demografica si allinea all’interno dello Stato assoluto: tanti figli significano tanti soldati, e tanti soldati significano tante bocche da fuoco, di difficile costruzione e soprattutto molto costose. Ciò comporta la trasformazione dell’economia che soffoca le iniziative private; le importazioni (pagate comunque in merci e non in denaro, quel denaro che nel Rinascimento tutto poteva, anche assicurare un posto in Paradiso, come scriveva C. Colombo, messaggio questo che scandalizzò Lutero), il lavoro libero, i commerci, tutto è sottoposto a controllo statale: l’economia è irregimentata al solo scopo delle guerre di espansione.

Ecco imporsi la Francia, per numero di abitanti, per ricchezza dei prodotti, per abbondanza di artiglierie, la cui politica accentratrice e autarchica sfocerà nel 1600 nel colbertismo e nelle inevitabili guerre comportate anche dalla aggressiva politica economica. Più in generale, “l’imponente struttura organizzativa delle monarchie europee e lo spirito imprenditoriale ed affaristico dei ceti mercantili si traduce in maggiori richieste tecniche. Allestire eserciti sempre più potenti e fornirli di un adeguato armamento, presuppone una sequela di cognizioni di balistica, che a loro volta implicano più approfondite conoscenze di matematica e di fisica, ossia più nozioni scientifiche. La saldatura fra scienza e società moderna passa dunque, sin dall’inizio, attraverso i nuovi bisogni, concretizzati nelle nuove esigenze tecniche” (Abbagnano-Fornero, op. cit., p. 120). Sono i nuovi bisogni che assillano i prìncipi d’Europa e d’Italia, pronti ad investire ingenti capitali pur di accaparrarsi presso le loro corti le figure più rappresentative del sapere scientifico al fine di garantire il primato militare necessario a vincere la gara di potenza fra gli Stati.

La posizione di tali figure, dal 1400 al 1600, non fu esclusivamente di rimpianto e di sconcerto di fronte alla nuova realtà delle armi da fuoco e della riorganizzazione degli eserciti: in alcuni casi la posizione risultò anche contraddittoria, pronta a rimpiangere il passato cavalleresco ma anche a cogliere le occasioni di autopromozione sociale offerte dalla richiesta di mercato attraverso la mutata situazione. E’ il caso di Leonardo da Vinci, quando condanna con violenza la “pazzia bestialissima” della guerra, come risulta dai bozzetti della battaglia di Anghiari (vinta dai fiorentini nel 1440) e dalle note “sul modo di figurare una battaglia”, dove, con effetto, scrive: “Farai rosseggiare i volti e le persone e l’aria e li scoppettieri insieme co’ vicini […] l’aria sia piena di saettume di diverse ragione e le ballotte degli scoppietti sieno accompagnate da alquanto fumo dirieto al loro corpo [….] Farai molte sorte d’armi infra i piedi de’ combattitori, come scudi rotti, lance, spade rotte e altre simili cose; farai omini morti, alcuni ricoperti mezzi dalla polvere, altri tutta la polvere che si mischia coll’uscito sangue convertirsi in rosso fango; altri morendo strignere i denti [come non pensare alla ungarettiana Veglia?], stravolgere gli occhi, strignere le pugna e la persona e le gambe storte” (Bulferetti, op. cit., pp. 101-102).

Ma è pur sempre Leonardo che si sponsorizza presso il duca di Milano Lodovico il Moro nel 1482 come architetto militare e inventore di armi. Vediamo il testo della lettera con cui offre i suoi servigi al duca: “Ho ancora modi di bombarde comodissime e facili a portare e con quelle buttare minuti di tempesta e con il fumo dare grave spavento all’inimico danneggiandolo e confondendolo [….] Faccio carri coperti sicuri ed inoffensibili: i quali entrando tra i nemici colle sue artiglierie non è si grande moltitudine di gente d’arme che non ne resti rotta” (Bulferetti, op. cit., p. 41).

Nel Codice Atlantico, foglio 9 v-a, Leonardo disegna mortai in grado di lanciare proiettili devastanti che ricordano le odierne bombe a frammentazione, e progetta strumenti di morte come un’arma da fuoco con più canne montata su ruote, lontana progenitrice della mitragliatrice Gatling del 1851.

Altro esempio dell’atteggiamento contraddittorio degli scienziati dell’epoca, è offerto dal Tartaglia, che, all’inizio della “La nova scientia” del 1537, nella epistola dedicatoria a Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, scrive: “Ma poi fra me pensando un giorno mi parve cosa biasimevole, vituperosa et crudele, et degna di non puoca punitione appresso a Iddio, a voler studiare di assotigliare tal esercitio dannoso al prossimo, imo distruttore della specie humana, et massime de Cristiani in lor continue guerre. Per il che non solamente posposi totalmente il studio di tal materia et altresì a studiare in altro, ma etiam strazzai, et abrusciai ogni calculatione et scrittura da me nota, che di tal materia parlasse”. Così commenta Walter Panciera: “Tartaglia dichiarò di aver distrutto i suoi precedenti appunti e osservazioni in materia di artiglierie, in un moto di ripulsa verso questo esercizio dannoso. Ma è chiaro che il suo interesse aveva conosciuto una ripresa che doveva datare già da qualche tempo” (W. Panciera, Il governo delle artiglierie, p. 7 e p. 125).

Abbiamo concluso che “i cambiamenti nel campo dell’arte della guerra furono paralleli a quelli che nel frattempo erano maturati nella società, nell’economia e nella politica” (N. Lablanca, Storia illustrata delle armi da fuoco, p. 48). La storiografia è stata attenta a sottolineare tale nesso, che ha autorizzato lo storico Michael Roberts a parlare, negli anni Cinquanta, di “rivoluzione militare” , espressione ripresa a metà degli anni Ottanta con l’affermazione che “ne sarebbe derivata, di conseguenza, l’ascesa dell’Occidente rispetto agli altri continenti” (Id., p. 49). In verità, il dibattito storiografico è lungi dall’essere risolto: “Sin dalla prima apparizione della categoria di “rivoluzione militare” gli storici non hanno smesso di discutere della sua opportunità e della congruità di quel nesso causale fra guerra e società, fra armi da fuoco e fine del Medioevo. Ci si chiede, in ultima analisi, se davvero erano stati gli archibugi e i cannoni a far cadere la nobiltà, i suoi castelli e più in generale il Medioevo. Nel dibattito che ne è sortito le precisazioni e i distinguo sono stati numerosi” (ibid.).

Dagli archivi di Venezia emerge un documento anonimo di 16 pagine, stampato nel 1573, dove è contenuta la poesia dell’artigliere L’arte del bombardier non fa per tutti, poesia in ottave un po’ bruttina, anche perché gli endecasillabi non sono regolari, ricca però di spunti di riflessione per il tema che ci siamo proposti di discutere, e cioè il ruolo svolto dall’arte della guerra all’interno del vasto fenomeno della Rivoluzione scientifica rinascimentale. Il primo verso suggerisce il titolo del componimento, con la motivazione espressa nel secondo verso “Essendo arte a voi pericolosa”. Notiamo che la parola “arte” compare due volte nei primi due versi, e ben quattro volte nella prima ottava, facendo ulteriormente comparsa nelle ottave successive. Considerato che, più avanti, esamineremo analiticamente l’opera di Machiavelli L’arte della guerra, è opportuno, inizialmente, soffermarci su questo termine per alcune considerazioni di fondo.

La parola “arte” deriva dalla radice ARË, “articolare, ordinare” che ci rimanda a “ordine”, “armonia” (in greco: proporzione) e per ciò stesso si associa spontaneamente al concetto di bello artistico (il Cenacolo di Leonardo è costruito secondo le proporzioni della sezione aurea) e di conseguenza alla sfera della storia dell’arte. A noi, però, ora interessa in quanto traduzione del corrispettivo greco “TÈCHNE”, su cui hanno scritto Aristotele e Platone. Per il primo, è una delle cinque virtù dianoetiche o intellettive, e precisamente la capacità, accompagnata da ragione, di produrre un qualche oggetto: essa perciò riguarderebbe la produzione (POIESIS) e non l’azione (PRAXIS). In altre parole, l’arte è la capacità di produrre qualcosa di diverso dall’azione stessa del produrre: in questo senso parliamo di arte medica in quanto in grado di produrre la salute. Recepiamo, per ora, dalla Etica Nicomachea, questa prima informazione: la TÈCHNE ha a che fare con il momento della produzione di un quid eterogeneo all’atto della produzione. Guardiamo, adesso, al testo della “Metafisica”: qui l’arte si configura come intermediaria tra l’esperienza e la scienza. Anche da questo testo ricaviamo un suggerimento: tra il piano della pura EMPEIRÍA, momento esperienziale privo di ordine, e quello della EPISTÉME, della scienza che ha per oggetto il necessario (ossia ciò che non può essere diverso da come è), si colloca come intermediaria la TÈCHNE, momento ordinatore e per ciò stesso metodico. Qui il significato aristotelico di arte non è lontano da quello platonico, inteso come procedimento ordinato – cioè conforme a regole – di una qualsiasi attività umana.

Siamo così pervenuti ad una prima conclusione: il concetto di arte comporta quello di metodo (dal greco META’ e HODÓS) “percorrere una via”, che in quanto tale non è un procedimento dis-ordinato, ma un percorrere razionale, finalizzato ad una meta ( a  meno che non ci troviamo nell’impasse esistenziale dell’ultimo Caproni, per il quale il punto di arrivo altro non è – dolorosamente – che lo stesso punto di partenza: ricordiamo i versi di “Mentore” del 1975: “Devi perseverare / usare buona pazienza / Ricordalo, se vuoi arrivare / al punto di partenza”).

E’ possibile, allora, parlare legittimamente di “arte della guerra” intesa come POIESIS ORDINATA CON METODO, finalizzata al risultato esterno di un primato nella gara di potenza dei principi, nel più ristretto contesto italiano (l’Italia è estranea al gioco delle grandi potenze con cui non può competere, non avendo né eserciti permanenti, né grandi flotte), o nel più ampio contesto europeo. Ricordiamo che il già citato Platone nel Protagora (Prot. 322 a) definisce arte la guerra, e Tucidide usa il termine EPISTÉME in riferimento all’arte militare (I, 121).

La seconda conclusione ha per oggetto la valenza estetica dell’arte della guerra come momento poetico-metodico.. In assoluto, l’atto creatore dell’arte come POIESIS, in quanto momento demiurgico, ha sempre una valenza estetica. Ricordiamo quanto scrive Eugenio Garin nella sua “Storia della filosofia italiana” intorno alla “virtù” del Machiavelli, categoria atta a bilanciare la imprevedibilità della “fortuna”: “Machiavelli esprime la sua ammirazione piuttosto estetica, che non freddamente ragionata, per la fortezza: “Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che rispettivo, perché la fortuna è donna: et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla” (vol. II, p. 720). La virtù come fortezza è l’altra opzione rispetto al “calcolo prudente”, rispettivamente l’arte del “lione” e della “golpe”; dove non arriva la prima, arriva la seconda (v. Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini 1503 (?)). E’ indubbio che, se l’arte della volpe, in grado di “liberarsi dai lacci” diversamente dal leone, è la conclusione della rivalutazione umanistica dell’intelligenza intesa come capacità, fredda e razionale, di dominare una situazione, l’esercizio della fortezza esercita, su Machiavelli, un particolare fascino “estetico” implicito nella componente demiurgica dell’atto creatore di “ripari e argini” al fiume “rovinoso” della fortuna che, “quando si adira”, tutto travolge (Il principe, XXV).

Ritornando alla poesia dell’artigliere, nostro punto di partenza, sono illuminanti i versi della terza ottava: “El ti bisogna ancor cargare / un pezzo con la sua proporzione / et quanta polver tu li hai da dare / al pezzo con la palla con ragione”, dove si nota l’intreccio tecnico tra calibro del cannone, peso della palla e carica di polvere. Scrive Walter Panciera a proposito di Giulio Savorgnan “punto di cerniera tra il mondo dell’artigianato specializzato, gli albori della scienza empirica, il governo [veneziano] e l’organizzazione degli eserciti” (op.cit., p. 198), interlocutore del matematico bresciano Tartaglia intorno al nono quesito del libro secondo dell’opera Quesiti et invenzioni diverse (1554), “l’importanza del problema tecnico non era trascurabile, visto che il calibro dei cannoni veniva misurato secondo il peso standard della palla, al quale doveva poi essere rapportato di necessità il diametro delle bocche da fuoco. Anche la quantità di polvere da utilizzare era sempre rapportata al peso della palla medesima” (op. cit., p. 199). Il quesito posto al Tartaglia era di schietta natura matematica: se una palla di pietra di diametro 4 once pesa 8 libbre [0,301 x 8 = 2400 grammi], una di 6 once [equivalente a mezzo piede] quanto pesa? Tartaglia calcola 27 libbre, e se di ferro, rispettivamente 18 e 60 libbre. Anche in questo caso l’arte (TÈCHNE) della guerra si esprime nel cogliere i rapporti interni tra le componenti (calibro della canna – peso della palla – quantità di polvere) in oggetto, rapporti di proporzione individuati dalla ricerca metodica: come non ravvisare la presenza di una valenza “estetica”?

Più avanti nel tempo, il suo fondamento razionale lascerà il posto ad un fondamento sempre più irrazionale, testimoniato tragicamente dalla storia (consiglio in tal senso la lettura del saggio di Chris Hedges Il fascino oscuro della guerra). Sono motivo di riflessione finale le parole di Shakespeare: “Datemi la guerra, vi dico, è superiore alla pace quanto il giorno è superiore alla notte: è allegra, animata, sonora, piena di effervescenza” (Coriolano, Atto IV, Scena V).

Vediamo ora le posizioni assunte da Machiavelli, Guicciardini, Ariosto, Cervantes, Erasmo  sulla realtà delle armi da fuoco.

Machiavelli ha avuto il merito di aver elevato l’arte della guerra al concetto etico moderno.. Sosteneva che il soldato si impersonifica nel cittadino, e che la guerra è uno dei mezzi morali per il conseguimento di un bene collettivo. La conoscenza dell’arte della guerra è allora parte essenziale della scienza dello Stato. L’educazione militare di un popolo è la base per sua indipendenza.

Esaminiamo, più da vicino, due testi del segretario fiorentino atti a ricostruire la posizione assunta in merito al ruolo svolto dalle armi da fuoco, in particolare dalle artiglierie, nell’economia delle battaglie nell’età moderna: precisamente L’arte della guerra del 1521 – l’unica opera di cui abbia curato personalmente la stampa presso i famosi Giunta di Firenze – e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, composti tra il 1513 e il 1517, pubblicati postumi nel 1531. Quando attende alla composizione delle due opere, l’importanza delle armi da fuoco si era già imposta, come è provato dalla battaglia di Melegnano del 1515, al cui svolgimento concorsero in modo determinante le artiglierie. Vediamo come si pronuncia intorno a questa nuova realtà presente alla sua speculazione politologia e operante come elemento dinamico all’interno della Rivoluzione scientifica.

Considerata la priorità dei Discorsi, terminati nel 1517, due anni prima dell’inizio del dialogo L’arte della guerra, possiamo accertare o meno una evoluzione nella sua valutazione del ruolo delle armi da fuoco, in primis delle artiglierie, nell’economia delle battaglie; muoviamo perciò dall’analisi del capitolo XVII del secondo libro dei Discorsi, intitolato “Quanto si debbino stimare dagli eserciti ne’ presenti tempi le artiglierie; e se quella oppinione, che  se  ne ha in universale, è vera”.

La problematica può essere introdotta dalle parole di Luigi Alemanni, giovane interlocutore del capitano Fabrizio Colonna, controfigura del Machiavelli, nel libro terzo dell’Arte della guerra, parole che fissano i termini del problema: “Io ho sentito a molti spregiare l’armi e gli ordini degli eserciti antichi, arguendo come oggi potrebbono poco, anzi tutti quanti sarebbero inutili, rispetto al furore delle artiglierie;  perchè  queste rompono gli ordini e passano le armi (p. 108)”. Luigi Alemanni in tal modo mette a fuoco il significativo passaggio di consegne che si sta verificando all’inizio dell’età moderna, quando, dal punto di vista militare, le strutture cavalleresche del vecchio mondo medievale appaiono scalzate dalla rivoluzione oplologica che, a fianco delle parallele innovazioni tecniche, concorre a fondare la più ampia Rivoluzione scientifica. Non capire il senso di questo passaggio, significava restare legati ad un passato nobile quanto sterile; significava restare legati alla menzogna vitale della pazzia erasmiana, quella che agita lo sdegno dell’Ariosto per il tradimento dell’etica militare ed il nostalgico rimpianto di Don Chisciotte (peraltro smitizzato e dissacrato dal Cervantes), sicchè la conclusione di Luigi Alemanni, che chiede un intervento chiarificatore di Fabrizio Colonna, non appare fuori luogo nel ricorso alla stessa parola “pazzia”, quale appare ai “molti” il “fare uno ordine che non si possa tenere, e durare fatica a portare un’arme che non ti possa difendere” (p. 108).

Ma seguiamo da vicino il testo dei Discorsi articolato nell’argomentazione intorno alla triplice “opinione universale di molti” (si è notato che l’espressione è contraddittoria) e cioè: se ai tempi dei Romani ci fossero state le artiglierie, non sarebbe stato loro possibile fare conquiste tanto rilevanti; le armi da fuoco impediscono di “mostrare le virtù antiche”; le armi da fuoco annullano le procedure delle battaglie dei tempi antichi cosicché la guerra col tempo sarà combattuta solo con le artiglierie.

Intorno alla prima opinione, l’argomentazione appare molto analitica e articolata a fuoco d’artificio (tanto per rimanere nell’ambito pirico): vediamo 1) le guerre sono offensive o difensive; 2) le artiglierie fanno più danno a chi si difende che a chi offende; 3) chi si difende: a) è dentro una fortezza b) è dentro accampamenti circondati da palizzate. Ulteriormente: 3 a 1, la fortezza è piccola, come nella maggior parte dei casi; 3 a 2, la fortezza è grande. Nell’ipotesi 3 a 1, chi si difende è perduto: l’artiglieria nemica abbatte le mura con rapidità e il nemico penetra attraverso la breccia; l’artiglieria non è efficace a fronte di un attacco in massa e condotto con impeto, infatti gli assalti degli eserciti stranieri sono efficaci, quelli degli italiani, con scarso impeto e in ordine sparso, no, perché sono oggetto delle artiglierie (?). L’esempio è offerto dalla battaglia di Brescia del 1512, combattuta tra la Lega Santa (papa Giulio II, Venezia, Spagna, Svizzeri, Inglesi) e i Francesi, per espellere questi ultimi dal Milanese. Brescia si era data ai Veneziani, ma i Francesi la ripresero in 17 giorni (le artiglierie veneziane sparpagliate lungo la via che collegava la fortezza, ancora francese, a Brescia, non impedirono a Gaston de Foix alla testa di 6400 uomini a piedi di saccheggiare la città). La  ipotesi 3 a 1 trova conferma successivamente nell’Arte della guerra, nella conclusione di Fabrizio Colonna, alter ego di Machiavelli, che “chi si difende in una terra piccola e truovisi le mura in terra e non abbia spazio di ritirarsi con i ripari e con fossi, e abbiasi a fidare in sulle artiglierie, si perde subito” (pp.409-410). Si potrebbe obiettare che l’esempio di Brescia non è calzante (“terra piccola” ?) e può valere, al massimo, nell’ipotesi più generale che le artiglierie sono più dannose a chi si difende che non a chi offende (v: ipotesi 2), ma proseguiamo.

Nell’ipotesi 3 a 2, anche se ci si difende in una fortezza grande, le artiglierie sono più utili a chi offende e non a chi si difende. Abbiamo infatti due casi: 3 a 2 a, con artiglierie piccole, inefficaci ad alzo zero contro un nemico al riparo; 3 a 2 b, con artiglierie grandi, possibili di tiro parabolico; 3 a 2 b si suddivide ulteriormente, a seconda dei problemi sollevati: 3 a 2 b 1, troppo pesanti per poterle sollevare sulle mura; 3 a 2 b 2, sulle mura non c’è spazio sufficiente per muoverle agevolmente e metterle al riparo, come avviene in spazio aperto; 3 a 2 b 3, se si abbassano le mura, l’artiglieria nemica facilmente fa breccia, potendo così riempire i fossati con le macerie prodotte. Considerato tutto ciò, è inevitabile che la difesa della fortezza si riduca ad una difesa corpo a corpo, all’arma bianca, dove sono inutili le artiglierie. La conclusione è che “giovano questi istrumenti molto più a chi campeggia (= assedia) terre che a chi è campeggiato” (p. 412).

Col senno (leggi: conoscenze) di poi, annotiamo come si potesse far ricorso ad artiglierie grandi con lancio parabolico disposte negli spazi aperti dietro le mura, così da superare le mura stesse e colpire il nemico a distanza al di fuori, ma un tiro “cieco” era allora impossibile, perché la balistica come scienza non era ancora nata: dobbiamo aspettare il Tartaglia nel 1537. Lo conferma, indirettamente, Machiavelli stesso nell’Arte della guerra, quando scrive: “sono molte più le volte che le artiglierie grosse non percuotono le fanterie, che quelle ch’elle percuotono; perché la fanteria è tanto bassa e quelle sono si difficili a trattare (corsivo mio), che, ogni poco che tu l’alzi, elle passano sopra la testa de’ fanti; e se l’abbassi, danno in terra, e il colpo non perviene a quegli. Salvagli ancora la inequalità del terreno, perché ogni poco di macchia o di rialto che sia tra’ fanti e quelle, le impedisce” (p. 111).

Circa , poi, l’ipotesi di chi si difende all’interno di accampamenti circondati da palizzate (3 b), e non vuole attaccare battaglia se non a suo gradimento, questi non ha di solito maggiori possibilità di sottrarsi al combattimento di quelle che avessero gli antichi, e qualche volta, a causa delle artiglierie, è ulteriormente svantaggiato. Perché se il nemico è favorito dalla natura del territorio trovandosi in posizione più elevata, ti costringe, con le sue artiglierie, ad uscire allo scoperto e pervenire allo scontro (v: la battaglia di Ravenna del 1512, dove gli Spagnoli furono battuti dai Francesi). Se poi invece, chi si difende, è favorito dalla natura del territorio per cui il nemico non osa assaltarlo, questi ha altri mezzi per vincerlo, ricorrendo ai metodi seguiti nel mondo antico, come devastare le campagne, assediare le città alleate e ostacolare i rifornimenti: il che obbliga chi è in difesa ad uscire dagli alloggiamenti e ad andare allo scontro, dove le artiglierie non sono determinanti.

In conclusione: considerato che i Romani “feciono quasi tutte le loro guerre per offendere altrui e non per difendere loro, si vedrà come quegli arebbano avuto più vantaggio, e più presto arebbono fatto i loro acquisti, se le [artiglierie] fossero state in quelli tempi” (p. 413).

Circa la seconda opinione “che gli uomini non possono mostrare la virtù loro come ei potevano anticamente, mediante l’artiglieria”, Machiavelli nega che la presenza dell’artiglieria comporti, al suo tempo, più pericoli, nel dare la scalata alle mura di una fortezza, di quanti ne comportassero azioni simili nei tempi antichi. E’ ben vero che i comandanti degli eserciti possono essere colpiti ovunque, anche nella retroguardia e ben protetti “da uomini fortissimi” dal fuoco dell’artiglieria, ma sono casi rari; inoltre, nei tempi antichi, non mancavano “cose da trarre “[strumenti per lanciare proiettili] a chi difendeva le mura, che, pur non devastanti come le artiglierie, “facevano, quanto allo ammazzare gli uomini, il simile effetto” (p.  414). Circa poi la morte di comandanti, computando dalla discesa di Carlo VIII (1494), in 24 anni rileviamo meno incidenti che in 10 anni dei tempi antichi, perché, fatta eccezione del conte Lodovico della Mirandola e del duca di Nemors, “non è occorso che d’artiglieria ne sia morto alcuno” (p. 415). In conclusione: se gli uomini, individualmente, non dimostrano la loro virtù, ciò non è legato alla presenza delle artiglierie, ma alla cattiva organizzazione e debolezza degli eserciti.

Sulla terza opinione “che la guerra si condurrà tutta in sull’artiglierie”, Machiavelli la dichiara palesemente falsa, argomentando che il punto di forza dell’esercito è pur sempre la fanteria, nei confronti della quale “diventano al tutto le artiglierie inutili” (p. 416), in particolare “le artiglierie grosse” [bombarde e mortai] a causa della incapacità di regolarne l’alzo di tiro. Quando poi – aggiunge – gli eserciti vengono allo scontro, né “le artiglierie grosse”, né “le piccole” [scoppietti o archibugi] giovano, perché, se collocate in prima fila, possono essere catturate, se nelle retrovie, comportano per le suddette difficoltà di alzo, i rischi di un “fuoco amico” (per usare una espressione odierna). Machiavelli porta l’esempio della fanteria svizzera che a Novara, nel 1513, senza artiglierie, occupò gli accampamenti fortificati dei Francesi muniti di artiglieria. La ragione, poi, delle recenti vittorie dei Turchi non è da attribuire alla efficacia dell’artiglieria, ma allo spavento provocato nelle file avversarie dal tuono dei cannoni: “E se il Turco [Selim I] mediante l’artiglieria contro a il Sofì [lo scià di Persia Isma’il] e il Soldano [[Sultano di Siria e di Egitto] ha avuto vittoria [rispettivamente nel 1514 e nel 1517], è nato non per altra virtù di quella, che per lo spavento che lo inusitato romore messe nella cavalleria loro” (p. 419). La conclusione di Machiavelli è dunque che “l’opinione universale” non è vera e che l’artiglieria “contro a uno esercito virtuoso è inutilissima” (ibid.).

I sette libri dell’Arte della guerra non prevedono nei loro dialoghi bruschi mutamenti di prospettiva in materia di armi da fuoco e, nello specifico, di artiglierie; sono infatti prevalenti le concordanze di valutazione, con l’unica eccezione relativa alla tattica di assalto alle mura, dove Machiavelli sostiene il contrario di quanto affermato nel capitolo XVII dei Discorsi, e cioè che, per limitare i danni delle artiglierie, conviene attaccare rapidamente e in ordine sparso, “non adagio e in mucchio”, poiché l’artiglieria “per la radità può meno numero d’uomini offendere” (p. 109).

Le concordanze più rilevanti riguardano la inefficacia delle “artiglierie grosse” sulle fanterie; la efficacia, al contrario,  della “artiglieria minuta”, confermata nell’Arte della guerra “vero è che assai più nuociono gli scoppietti e le artiglierie minute” (p. 111); le difficoltà di regolare l’alzo di tiro delle artiglierie di grosso calibro, e l’inutilità di difendere l’artiglieria con i soldati, ribadita ulteriormente: “se i nemici l’abbandonano, tu le occupi; se la vogliono difendere, bisogna se la lascino dietro; in modo che, occupata da’nemici e dagli amici, non può trarre” (p. 109). Se la conclusione del capitolo XVII dei Discorsi sanciva inequivocabilmente che l’artiglieria “contro a uno esercito virtuoso è inutilissima”, analoga conclusione emerge ora, quando dietro Fabrizio Colonna si affaccia autorevolmente la persona stessa di Machiavelli attraverso il rimando al testo dei Discorsi: “Tanto che io vi conchiudo questo: che l’artiglierie, secondo l’oppinione mia, non impediscono che non si possano usare gli antichi modi e mostrare l’antica virtù. E se io non avessi parlato altra volta con voi di questo istrumento, mi distenderei di più; ma io mi voglio rimettere a quello che allora ne dissi” (p. 113).

Dal confronto dei due testi emerge – è il limite della posizione del segretario fiorentino – l’identica sottovalutazione dell’importanza delle artiglierie e delle innovazioni che comportavano per lo sviluppo della tecnica militare; vero è che, come scrive Maurizio Viroli, “bisogna tenere presente che, quando egli scrive, tale mutamento è appena agli inizi e che egli non dice che le artiglierie non sono importanti, ma solo che il “nervo” della guerra è ancora rappresentato dalle fanterie” (p. LXVII), ma è altrettanto vero che, come scrive Bàrberi Squarotti, l’Arte della guerra risponde più ad una angoscia intellettuale – l’esigenza  “della perfezione trattatistica, della costruzione esemplare, del perfetto progetto intellettuale, appunto, calcolo della mente, teoresi allo stato puro, che non entra più in   contrasto con le effettive forze della storia (p. LVI) – che non a una problematica storica; laddove lo storico dell’arte militare Piero Pieri rileva “le molte ingenuità e le innegabili carenze che connotano il pensiero machiavelliano” (p. LXIV), come il rifarsi alla tattica della legione romana, dimenticando l’azione distruttiva che deve precedere “l’azione risolutiva all’arma bianca”, o riducendola a “un’unica rumorosa e fumosa scarica di artiglieria” (ibid.).

Anche nel secondo libro dell’Arte della guerra, il progetto di Fabrizio Colonna, pur con una apertura alle “artiglierie piccole” “aggiungerei lo scoppietto, istrumento nuovo (come voi sapete) e necessario” (p. 66), finisce per attribuire scarso ruolo alle armi da fuoco all’interno del battaglione di 6000 uomini, sul modello romano dei 6000 uomini divisi in 10 coorti. Machiavelli lo divide in 10 “battaglie” di 450 uomini, ulteriormente divise in 400 uomini dotati di “armi gravi” (latinismo per pesanti), divisi a loro volta in 300 “scudati” (con scudi e spade) e 100 armati di picche (lunghe 9 braccia), e 50 uomini dotati di armi leggere, come “scoppietti”, balestre e “partigiane” (alabarde). Ai 4500 componenti le 10 “battagie”, il Colonna-Machiavelli aggiunge, per completare il numero di 6000 uomini, ulteriori 1500 uomini, divisi tra 1000 dotati di “picche straordinarie” e 500 dotati di armi leggere (pp. 69-70).

Come si vede, su un totale di 6000 uomini, il numero di soldati dotati di “scoppietti” appare assolutamente irrisorio (posso ipotizzare un trentacinquesimo delle forze in gioco, ma la cifra potrebbe essere inferiore).

Ma è il libro III che dedica spazio alla realtà e alla efficacia delle artiglierie. Vediamo le eventuali novità rispetto a quanto scritto nei Discorsi.  Fabrizio Colonna esordisce con l’ottimistica previsione che “bastano 10 cannoni per la espugnazione delle terre [città, fortezze] con proiettili di 50 libbre”, ribadendo che siano più utili “per la difesa degli alloggiamenti che per fare giornata” (p. 103). In verità, cento anni prima, nel 1418, Amedeo VIII di Savoia commissionava una bombarda, la “Gaudinet”, in grado di sparare una palla di 150 libbre, tre volte più dirompente. Le altre artiglierie previste, ma il Colonna non ne precisa il numero, prevedevano proiettili “più tosto di dieci che di quindici libbre di portata” (ibid.). Circa la loro efficacia, il Colonna immagina i termini di uno scontro tra il suo progettato esercito e quello nemico: “Non sentite voi le artiglierie? Le nostre hanno già tratto, ma poco offeso il nemico [….] l’artiglieria [del nemico] ha scarico a sua volta e ha passato sopra la testa de’ nostri fanti senza fare loro offensione alcuna” (p. 105). Come si vede, l’efficacia delle artiglierie lasciava a desiderare da entrambe le parti, al di là del sordo rumore della detonazione, del fumo e della vampata emessa, elementi peraltro deterrenti, se ricordiamo le parole del Guicciardini: “palle che volavano con sì orribile tuono e impeto stupendo” (Storia d’Italia, vol. I, libro I, cap. 11).

Se l’interlocutore Luigi Alemanni si stupisce per l’unica salva di cannonate prodotta: “perché non facesti voi trarre le vostre artiglierie più che una volta?”, la risposta di Fabrizio Colonna è in linea con la tesi più volte esposta nei Discorsi: “la cagione è perché egli importa più a uno guardare di non essere percosso, che non importa percuotere il nemico” (p. 108). Se proprio bisogna “trarre” i cannoni (Machiavelli non osa sfidare del tutto “la reputazione che ha l’artiglieria”), è preferibile collocarli “in su’ corni dell’esercito”, al fine di evitare che il fumo prodotto possa accecare la propria fanteria (p. 110). Dopo aver ribadito la scarsa affidabilità delle “artiglierie grosse” a causa dei problemi di alzo del tiro, e l’ammirazione per gli Svizzeri, da imitare, “i quali non schifarono mai giornata sbigottiti dalle artiglierie”,  Fabrizio Colonna giustifica agli occhi di Luigi Alemanni il fatto di aver lasciato cadere l’argomento (“perché né poi ne facesti menzione?”) affermando sbrigativamente che “non ne feci più menzione, come di cosa inutile, appiccata che è la zuffa” (p. 111).

Quali considerazioni possiamo trarre dall’esame comparato dei due testi? Come scrive Francesco Bausi, “l’Arte della guerra, a rigor di termini, poco o niente aggiunge di nuovo, dal punto di vista sia teorico che militare e politico, rispetto alle opere machiavelliane precedenti” (p. LXXVIII). Ferma restando la grandezza di Machiavelli nell’affermazione di un principio base dello Stato moderno, e cioè che questo deve essere ben armato, intendendo con ciò uno Stato non armato fino ai denti, ma solo dotato di buone armi – famoso il suo giudizio sugli Svizzeri pacifici “perché ben armati” – e che il problema politico e quello militare sono strettamente connessi (Chabod), il testo si modella su “gli incisi militari sparsi nelle opere precedenti: assoluta prevalenza accordata alle fanterie e scarso conto fatto non solo della cavalleria, ma anche della artiglieria, benché la battaglia di Ravenna del 1512 ne avesse dimostrato l’utilità anche in combattimento aperto” (Chabod, p. XLVIII). Questo suo non prevedere il futuro dell’arte della guerra è ascrivibile, in buona parte, all’errato criterio metodologico che informa la sua analisi, e cioè quello dell’imitazione integrale del modello romano: “io non mi partirò mai, con lo essemplo di qualsiasi cosa, da’ miei Romani” (libro I, p. 13).

Plaudiamo così all’intuizione che “il potere militare deve essere sempre subordinato a quello politico, di cui è emanazione”; che “uno Stato che cresce e vive di per sé deve bastare militarmente a se stesso” (F. Centi, pp. XIX e XV); che “l’elevazione del cittadino a soldato prepara pur quella del soldato a cittadino, alla soppressione dell’antitesi fra uomo di guerra e uomo di pace. In questo egli è dunque, oggi più che mai, un precursore” (P. Pieri, p. LV). Nello stesso tempo, però. condividiamo le argute parole del Pieri quando conclude: “Fra le molte disgrazie d’Italia fu ventura che nessun capitano sognasse mai di adottare lo schema tattico tracciato nel terzo libro dell’Arte della guerra” (p. LXIV). Guicciardini nella sua Storia d’Italia del 1537 ci lascia un resoconto della evoluzione tecnica dei cannoni, allineandosi al comune giudizio su quella invenzione “più tosto diabolica che umana”. Definisce la polvere da sparo “questa peste trovata molti anni innanzi in Germania”, sottolineandone così la potenzialità distruttiva alla guisa di un morbo contagioso, e prosegue affermando che “fu condotta la prima volta in Italia da’ viniziani, nella guerra che circa l’anno della salute mille trecent’ottanta ebbono i genovesi con loro” (Storia d’Italia, I, cap. 11).

Questo porta a concludere “come Venezia fosse tra i paesi europei all’avanguardia nello sviluppo della tecnologia bellica legata all’artiglieria. Lo dimostra anche il fatto che nel famoso Feuerwerkbuch, un manuale scritto verso la fine del XIV secolo, l’anonimo autore tedesco raccomandava di utilizzare il salnitro procurato dai mercanti veneziani, assai esperti nella commercializzazione di questo genere merceologico” (W. Panciera, op. cit., p. 135).

Il merito del Guicciardini, al di là del moralistico giudizio di esecrazione che lo accomuna ai contemporanei, è di aver inserito nella narrazione della discesa di Carlo VIII, i cui 36 cannoni di bronzo, col loro tuono, atterrirono la penisola, un documentato passaggio sull’evoluzione tecnica dei cannoni nel corso del XV secolo. Da strumenti pesanti, poco maneggevoli e inefficaci quali erano stati (le prime bombarde introdotte dai veneziani nella guerra contro Genova del 1380 erano imprecise, molto pesanti e difficili da trasportare), le artiglierie erano ormai diventate armi che obbligavano a ripensare totalmente i principi della strategia militare offensiva e difensiva. I cannoni dei Francesi erano più robusti, fusi in bronzo; sparavano palle di ferro e non di pietra, più funzionali; erano trainati da cavalli e non da buoi, come in Italia, “con agilità tale di uomini e di istrumenti deputati a questo servizio che quasi sempre al pari degli eserciti camminavano”; la cadenza di tiro era di molto superiore a quella delle bombarde veneziane, viziata da “tanto intervallo” (op. cit., libro I, cap. 11).

Il suo giudizio si rivela poi acuto quando coglie il nesso causale sulle conseguenze non solo materiali, come “mutazioni di stati, conversioni di regni, desolazioni di paesi, eccidi di città”, ma anche spirituali “ma eziandio nuovi abiti, nuovi costumi, nuovi sanguinosi modi di guerreggiare” (op. cit. libro I, pp. 37-39). Le nuove armi da fuoco, dunque, non solo uccidono più e meglio delle armi bianche, ma, fatto più rilevante, modificano in modo significativo la visione del mondo dell’uomo rinascimentale.

Vediamo, ora, il rimpianto della guerra cavalleresca e dei suoi valori nei versi dell’Ariosto, precisamente nei canti IX e XI dell’Orlando furioso.

Nel canto IX, ottava 78, l’Ariosto “ben consapevole degli effetti micidiali del fulmine sopra un deposito di polvere da sparo, utilizzò l’immagine come similitudine per definire la furia del paladino Orlando [disarcionato nel duello con Cimosco] colto così da un terrore paragonabile appunto a quello provato davanti alla vampa dell’esplosione” (W. Panciera, op. cit., p. 151 n.)

“Chi vide mai dal ciel cadere il foco

che con sì orrendo suon Giove disserra

e penetrare ove un richiuso loco

carbon con zolfo e con salnitro serra

ch’a pena arriva, a pena tocca un poco

che par ch’avampi il ciel, non che la terra

spezza le mura e i gravi marmi svelle

e fa i sassi volar sin alle stelle”.

Sempre nel canto IX il campione delle virtù cavalleresche riesce a sconfiggere il fellone Cimosco, immaginario re della Frisia, sequestrandogli l’archibugio, che poi getta in mare:

“O maledetto, o abominoso ordigno

che fabbricato nel tartareo fondo

fosti per man di Belzebù maligno

che ruinar per te disegnò il mondo

all’inferno, onde uscisti, ti rasigno.

Così dicendo, lo gittò in profondo”.

Ma il nobile tentativo fallisce perché l’arma viene ripescata e si diffonde nel mondo:

“La machina infernal, di più di cento

passi d’acqua ove stè ascosa molt’anni,

al sommo tratta per incantamento,

prima portata fu tra gli Alemanni;

li quali uno et un altro esperimento

facendone, e il demonio a’ nostri danni

assottigliando lor via più la mente,

ne ritrovaro l’uso finalmente.

Italia e Francia e tutte l’altre bande

del mondo han poi la crudele arte appresa.

Alcuno il bronzo in cave forme spande,

che liquefatto ha la fornace accesa;

bugia altri il ferro; e chi picciol, chi grande

il vaso forma, che più e meno pesa:

e qual bombarda e qual nomina scoppio,

qual semplice cannon, qual cannon doppio;

qual sagra, qual falcon, qual colubrina

sento nomar, come al suo autor più agrada;

che ‘l ferro spezza, e i marmi apre e ruina,

e ovunque passa si fa dar la strada.

Rendi, miser soldato, alla fucina

pur tutte l’arme c’hai, fin alla spada;

e in spalla un scoppio o un arcobugio prendi;

che senza, io so, non toccherai stipendi.

Come trovasti, o scelerata e brutta

invenzion, mai loco in uman core?

Per te la militar gloria è distrutta,

per te il mestier de l’arme è senza onore;

per te è il valore e la virtù ridutta,

che spesso par del buono il rio migliore:

non più la gagliardia, non più l’ardire

per te può in campo al paragon venire.

Per te son giti et anderan sotterra

tanti signori e cavalieri tanti,

prima che sia finita questa guerra,

che ‘l mondo, ma più Italia ha messo in pianti;

che s’io v’ho detto, il detto mio non erra,

che ben fu il più crudele e il più di quanti

mai furo al mondo ingegni empii e maligni,

ch’imaginò si abominosi ordigni.

Ariosto cita i nomi degli strumenti di morte contrari all’etica militare e offensivi di tutto il sistema dei valori militari come la gloria, la virtù, la gagliardia, l’ardire, su cui si basava il mondo feudale dei cavalieri: “sagra”, “falcone”, “colubrina”. Interessante il commento a questi termini portato dal chirurgo militare Ambrosie Parè (1517-1590), venuto in contrasto con la medicina ufficiale della Sorbona a proposito delle ferite da arma da fuoco, che portavano alla morte per infezione e conseguente setticemia (Parè) e non per velenosità della polvere da sparo (medici della Sorbona). Il Parè nel 1579 così scrive: “Di là sono venuti quegli orribili mostri, cannoni, cannoni doppi, bombarde, moschetti [….] quelle belve selvagge delle colubrine, serpentine, basilischi, falconi, falconetti, orche e infinite altre specie. In questo, certo, si sono mostrati saggi e ben accorti quelli che per primi hanno loro imposto questi nomi, presi non solo dagli animali più rapaci, come sagri e falconi, ma anche dai più perniciosi e nemici del genere umano, come serpenti, colubri e basilischi, per mostrare che tali macchine guerresche non hanno altro uso e non sono state inventate per altro fine e intenzione che per portar via prontamente e crudelmente la vita degli uomini” (A. Parè, Textes choisis, pp. 99-101).

Ricordiamo, infine, che nel 1532 Ariosto pubblicò l’edizione definitiva in quarantasei canti dell’Orando furioso, e in uno dei nuovi episodi inserì una nuova condanna delle armi da fuoco.

Non diversamente sembra allinearsi Cervantes col suo Don Chisciotte del 1605, anno che vede ormai le armi da fuoco come una realtà consolidata. Dico sembra, perché Cervantes non si identifica col suo protagonista, del quale vediamo un intervento in materia: “Benedetti quei secoli fortunati cui mancò la spaventosa furia di questi indemoniati strumenti di artiglieria, al cui inventore io per me son convinto che il premio per la sua diabolica invenzione glielo stanno dando nell’inferno, perché con essa diede modo che un braccio infame e codardo tolga la vita a un prode cavaliere [….] mi esapera pensare che della polvere e del piombo abbiano a negarmi la possibilità di rendermi noto e famoso per il valore del mio braccio e il filo della mia spada” (Cervantes, Don Chisciotte, vol. I, cap. 38, p. 431).

Se le espressioni “indemoniati strumenti” e “diabolica invenzione” lo avvicinano all’Ariosto, le posizioni dei due divergono: sincero lo sdegno del poeta, di maniera il rimpianto nostalgico del romanziere. Cervantes, cioè, dissacra con la figura di Don Chisciotte l’ipocrisia della letteratura cavalleresca aggrappata, e comunque fuori termine, ad un vecchio ordine delle cose superato dalla Rivoluzione rinascimentale. Tra il Don Chisciotte e lo scontro nell’Atlantico tra i pesanti galeoni spagnoli dell’Invincibile Armata e le più agili navi inglesi sono passati 17 anni: tanto bastava al Cervantes per rendersi conto dell’uscita di scena, lenta ma inarrestabile, della Spagna dal contesto europeo, a livello economico, politico e culturale, se è vero che il contributo spagnolo al travaglio filosofico e scientifico, che è tanta parte nella formazione della civiltà moderna, è del tutto marginale. Il contrasto economico, radice reale dell’epico scontro del 1588, “si traduceva altresì in una antitesi d’ordine spirituale: nessuna affinità poteva infatti esistere fra l’hidalgo spagnolo, cattolico, idealista, spregiatore della mercatura, inebriato di glorie militari, e il mercante inglese, antipapista e rivolto a ben altre mete che quelle della carriera militare o burocratica” (Camera-Fabietti, L’età moderna, p. 367).

Don Chisciotte è un sopravvissuto, aggrappato ai mulini a vento contro cui combatte. Illuminanti le parole di Denis de Rougemont nel suo fortunato L’amore e l’Occidente: “Cervantes non cita affatto i numerosissimi romanzi di “cavalleria celestiale” che si leggevano ai suoi tempi con passione: nel suo Quichotte si riallaccia esclusivamente ai romanzi d’avventure profane. Tale omissione è misteriosa: e militerebbe in pro della tesi secondo la quale Cervantes conosceva il reale significato della letteratura cortese, e si faceva beffe, non senza amarezza, delle fanfaluche dei suoi contemporanei, dedicatisi a un’illusione di cui avevano smarrito il segreto. Don Chisciotte sarebbe dunque grottesco solo perché vuole imitare un’ascesi alla quale non è iniziato, e seguire una via che la malvagità dei tempi rende completamente impraticabile. La chiesa di Roma ha trionfato. Meglio vale allora mettersi dalla parte buona, con l’onesto e realista Rancho Pança….” (D. de Rougemont, L’amore e l’Occidente, p. 243).

Resta da esaminare la posizione dell’umanista Erasmo da Rotterdam. Federico Cinti, curatore della introduzione all’Arte della guerra, accostando le figure di Machiavelli ed Erasmo, scrive di “due facce di una stessa moneta, una sorta di Giano bifronte”. Al di là della distanza irriducibile tra i due, come vedremo, ciò che li accomuna è “una Europa sconvolta da guerre fratricide e continue, di tutti contro tutti, quella in cui l’uno e l’altro, coetanei, si trovarono a vivere, a pensare, a soffrire” (op. cit., p. XXVI). La distanza irriducibile tra i due trova il suo fondamento nel motivo – a dire di Garin vera “ossessione” di Erasmo – della pace, che per quest’ultimo si poneva come valore assoluto, per Machiavelli solo valore relativo; il che si traduce, rovesciando i termini, nell’affermazione che la guerra , per il primo, “è il male assoluto e la pace, l’unico, vero, incontrovertibile stato di cose in cui l’uomo può realizzare perfettamente se stesso”, in chiave cristiana, per il secondo “è un male, resta un male, una estrema ratio con cui fare i conti, con cui misurarsi costantemente” (op. cit., p. XXXV), ma per ciò stesso resta oggetto di un’arte intesa come momento raziocinante che comporta la possibilità di dimostrarsi attivi nei confronti degli eventi, sconvolti dall’irrompere della fortuna. Per questo, “Machiavelli non rifiuta la guerra, ma tenta, in ogni modo, di farla rientrare nell’orbita egemone della politica attiva” (op. cit., ibid.).

Questo esclude, per Erasmo, la possibilità di parlare, in extremis,  di bellum iustum (previsto da Cicerone nel De Republica, III, 23, 24: il bellum è iustum se condotto pro fide aut pro salute), laddove Machiavelli, ricordando la volontà annientatrice dei Romani nei confronti dei Sanniti, ricorda le parole di incitamento a questi ultimi: Iustum est bellum, quibus necessarium, et pia arma, quibus nisi in armis spes est (Discorsi, op. cit., III, 12). Di fronte alla categoria della necessità, illustrata da Machiavelli dopo la virtù e la fortuna, la guerra diventa giusta e le armi pie (nel  significato del virgiliano “pio” Enea).

La dottrina del pacifismo di Erasmo è esplicitata negli Adagia (leggi: proverbi) del 1536, dove troviamo la massima Dulce bellum inexpertis, il cui commento è una completa argomentazione morale, politica e filosofica a favore del pacifismo: “nulla è più empio della guerra, nulla più sciagurato, nulla più pericoloso [….] Per l’uomo nessuna belva è più pericolosa di un altro uomo. Gli animali quando combattono lo fanno con le armi ricevute dalla natura; noi violiamo la natura e impariamo a uccidere servendoci dei ritrovati di un’arte infernale”. Ecco il suo orrore di fronte ad una ipotetica scena di battaglia, descritta con immagini che ricordano quelle leonardesche: “mucchi di cadaveri [….] l’acqua dei fiumi arrossata”, su cui incombe “il tuono dei cannoni” (Erasmo, Adagia, pp. 693-705). Nè poteva essere diversamente, per un umanista come Erasmo, che rifiutò il suo appoggio alla Riforma luterana quando, dietro di essa, intravide l’orgia di violenza e di anarchia conseguente all’appello luterano alla libertà – parola ricorrente negli scritti politici di Lutero – anche se, annota Thomas Mann, Lutero, in materia di libertà, non aveva capito niente.

Concludiamo con l’esame delle nuove scienze promosse dalla rivoluzione oplologica.

I primi tiri di artiglieria risultavano imprecisi quanto velleitari, ma l’impegno degli studiosi ha fatto nascere una scienza nuova: la balistica, che studia il movimento dei proiettili. Questa si divide in balistica interna e balistica esterna. “La balistica interna studia il movimento di un proiettile all’interno di una canna” (Musciarelli, op. cit., p. 65). Ci offre, per esempio, lo studio delle pressioni. La pressione interna alla canna, effetto della combustione, cresce tanto più rapidamente quanto maggiore è la vivacità della polvere. Questo comporta la distinzione tra polveri vivaci, come la polvere nera di cui ci occupiamo, che bruciano velocemente, e polveri progressive, cui sono aggiunte, come additivi, sostanze lemmatizzanti che ritardano la combustione. La confusione tra i due tipi di polvere può creare gravi danni, come l’esplosione dell’arma, fenomeno tutt’altro che raro anche nel Rinascimento, anche se nell’età moderna ciò si verificava in buona parte per difetti strutturali dell’arma (precisiamo che la progressività delle polveri è legata alle moderne polveri senza fumo, nate alla fine del 1800).

Come scrive Nicola Lablanca: “i primi cannoni erano in genere fabbricati con le tecniche costruttive dei barili, cioè con doghe poi cerchiate: per quanto metallici, questi elementi non di rado andavano letteralmente in pezzi a causa della forza esplosiva della polvere da sparo” (op. cit., p. 40).

La polvere nera (sino alla fine del 1800 si parlava genericamente di polvere da sparo, poi, con la diffusione delle polveri senza fumo, si operò la distinzione), pur essendo vivacissima, presenta il vantaggio di non aumentare progressivamente le pressioni con l’aumentare delle dosi utilizzate, il che è una garanzia di sicurezza. Scendendo nel dettaglio ricordiamo che la polvere nera è il primo esplosivo sintetizzato di cui si ha notizia dal XIII secolo. I prodotti della sua combustione sono solidi (55 %) e gassosi (45 %). Il gas prodotto è poco, al fine di validi effetti balistici, per cui le velocità restano basse anche incrementando la dose di polvere; in compenso avremo basse pressioni e quindi maggiore sicurezza, non garantita dalle polveri infumi (ma in realtà fumo ne fanno, anche se molto meno).

La balistica esterna studia invece il movimento di un proiettile fuori dalla canna, dalla volata sino al bersaglio.

Sino alla metà del 1500 “si credeva che i proiettili si muovessero in linea retta e che la traiettoria si componesse di un arco di cerchio e di due segmenti di retta. Il Tartaglia (Niccolò Fontana 1499?-1557, matematico bresciano detto Tartaglia a causa della balbuzie provocata dalle gravissime ferite infertegli dai soldati francesi durante il sacco di Brescia del 1512 [Panciera, op. cit., p. 121]), dimostrò con la matematica che nessuna parte della traiettoria è una linea retta. Galilei dimostrò che è una parabola. Newton nel 1723 fece notare che bisognava tener conto della resistenza dell’aria e dimostrò che la curva descritta da un corpo sferico nell’aria è lungi dall’essere una parabola” (Musciarelli, op. cit., ibid.). Da allora i matematici studiarono la curva della parabola. Si cominciò a parlare di angoli di elevazione, di tiro curvo, di traiettorie, di goniometri. Tutto ciò comportò nel tempo il problema dell’alzo delle artiglierie, che venne poi applicato anche ai fucili e alle pistole, con la creazione della tacca di mira regolabile. Una delle prime pistole semiautomatiche, la Mauser 1896, testata in pubblico direttamente dal Kaiser, era dotata di alzo fino a 1000 metri, in realtà inutile.

Il Tartaglia – di cui ricordiamo La nova scientia, appunto la balistica, Venezia, 1537 – inventò il “quadrante” per “graduare l’inclinazione da dare ad un mortaio durante il puntamento. Generalmente si componeva di una tavoletta di legno con due lati uguali formanti un angolo retto, dal vertice del quale pendeva un piombino che segnava l’inclinazione su una scala graduata; si chiamava anche squadra: ne aveva infatti la forma” (Musciarelli, op. cit., p. 335).

Si studiò, a garanzia di un tiro ottimale, il rapporto tra calibro e lunghezza del cannone: “i cannoni veneziani dovevano avere un rapporto tra la lunghezza della canna e il diametro della bocca pari a 17-19 volte. Un cannone da 50 libbre, che tirava cioè una palla di ferro di circa 15 chilogrammi [ci si riferisce alla libbra sottile, pari a Kg. 0,301], aveva una bocca del diametro di 173 millimetri; la lunghezza della sua canna poteva variare da m. 2,94 circa a m. 3,28 circa” (Panciera, op. cit., p. 167).

Inoltre, col tempo, “contrariamente a quanto si potrebbe pensare, si era scoperto che l’efficienza dei pezzi era inversamente proporzionale al loro calibro, malgrado quelli più piccoli fossero a prima vista meno spaventosi” (Id., p. 179). Il Consiglio dei Dieci, a Venezia, in data 19 agosto 1569, scriveva intorno alla superiorità delle armi portatili sulle artiglierie: “Si è conosciuto per esperientia che li arcobusoni da posta sono la miglior arma per difesa et offesa, che si possa adoperare così nelle fortezze, come nelli eserciti, et nelle armate” (ibid.). In conclusione, la balistica del 1500 riconosceva che la lunghezza della canna e un aumento della carica di polvere erano fattori determinanti per garantire una migliore gittata (anche se non era sempre così).

Tra i problemi della balistica, poi, quello della precisione nel tiro occupava uno dei primi posti. Le prime armi, fucili, pistole e cannoni erano a canna liscia e la precisione lasciava a desiderare. Queste armi accumulavano all’interno della canna troppi residui di combustione (fecce) , che rallentavano le operazioni di caricamento; così si pensò di scavare delle righe dritte all’interno della canna per accumulare nel gradino le fecce da eliminare successivamente con uno scovolo. Ma la rigatura dritta non aumentò più di tanto la precisione del tiro. La rigatura era già conosciuta nel 1400: abbiamo delle armi tedesche rigate. In un inventario fatto nella Rocca di Guastalla il 28 luglio 1476, si parla di “ferri factus a lumaga”, anche se la parola “lumaga” alludeva probabilmente ad una canna fabbricata a torcione, più che ad una rigatura.. Per facilitare la pulizia, si pensò in un secondo tempo di allungare la rigatura in modo elicoidale e allora si notò una stabilizzazione e una maggiore precisione del proiettile.

Questo si stabilizza per il movimento giroscopico intorno al proprio asse, asse che coincide con la direzione seguita dal proiettile nel suo moto di traslazione. Nella canna liscia, invece, la palla, più piccola del diametro della canna per facilitare il caricamento, procede in modo irregolare, urtando contro le pareti della canna, urti che generano moti di rotazione che deviano la palla  dalla traiettoria prescelta, e cioè l’allineamento col bersaglio. La soluzione di un problema, ne creava però uno nuovo e cioè il caricamento dell’arma. Una palla di calibro pari al diametro tra i pieni della rigatura non prende la rigatura, mentre una palla di calibro pari al diametro tra i vuoti della rigatura prende bene la rigatura ma richiede un caricamento lento e faticoso, perché va spinta a forza nella canna con un mazzuolo o la bacchetta inserita sotto la canna, e questo è un grosso limite in campo militare, per cui a metà del 1800 molti fucili erano ancora a canna liscia. Nelle odierne repliche ad avancarica si usa ancora la palla appena più piccola del calibro dell’arma, avvolta in una pezzuola tonda di cotone, che fa tenuta nelle rigature sui gas di propulsione. Ma con queste considerazioni abbiamo sconfinato cronologicamente, per cui chiudiamo l’argomento.

Come scrive Tommaso Argiolas nel suo Armi ed eserciti del Rinascimento italiano, “bombarde e cannoni determinarono, anzi imposero, il nuovo sistema fortificatorio permanente che fu adottato in Italia e che con il nome di “trace italienne” superò le Alpi e i mari” (p. 124). Nasce una nuova scienza collegata, quella relativa alle fortificazioni. Sul perché di una nuova  scienza collegata, scrive il Panciera, a proposito di Giulio Savorgnan, forse tra i maggiori architetti militari del Cinquecento italiano, “le considerazioni sulla difesa di Nicosia [dai Turchi] ci hanno introdotto al tema cruciale del rapporto tra architetture bastionate e uso della artiglieria: per il Savorgnan due facce della medesima medaglia” (op. cit., p. 209). L’effetto delle artiglierie, pur ancora imprecise, sulle vecchie mura si rese subito evidente: di qui la necessità, per l’assediato, di disporre di artiglierie con gittata superiore a quelle dell’assediante. Ma come abbiamo già rilevato dalle analisi del Machiavelli nell’Arte della guerra (3 a 2 b 1 e 3 a 2 b 2) “molte di queste armi [cannoni, falconi, spingarde] erano assai pesanti e non potevano essere collocate sui pavimenti di travi e tavole sui quali si schierava il difensore per combattere. Anche i pavimenti in muratura erano insufficienti a sopportare i pesi dei grossi cannoni. Poi alle artiglierie era necessario riservare un ampio spazio nel quale doveva essere assorbito il rinculo dei cannoni talvolta enormi. Ed ecco che, di conseguenza, le artiglierie ebbero un’influenza determinante sulle modifiche radicali delle fortificazioni per due motivi: per la necessità di ridurre l’ampiezza del bersaglio delle artiglierie attaccanti e nello stesso tempo di irrobustirlo per assorbire l’impatto dei pesanti proiettili e poi per l’indispensabile ampliamento e consolidamento delle superfici sulle quali appoggiava il cannone. Questi due fattori, uno difensivi, uno offensivo, imposero il nuovo tipo di fortificazione permanente: il bastione” (Argiolas, op. cit., pp. 128-129).

Così lo definisce il Musciarelli : “la voce venne usata per indicare una massa di terra, piena o vuota nel mezzo, la figura circolare ma più spesso poligonale, in particolare pentagona, incamiciata con zolle di terra erbosa o con pietre o mattoni disposta normalmente agli angoli dei recinti delle fortificazioni, con angolo saliente verso la campagna. Il bastione, detto anche baluardo, quando era costruito a punta sporgente e inclinato verso la campagna era spesso chiamato “puntone”” (op. cit., p. 69).

Nasce così nel Rinascimento una nuova ingegneristica militare italiana cui si deve il sistema difensivo bastionato con tutte le conseguenze che ne derivarono. Il nuovo metodo di fortificazione acquistò prestigio perché vi si dedicarono non solo ingegneri militari, come il citato Savorgnan di Venezia, che progettò la difesa della piazza di Nicosia, ma architetti e artisti più famosi, come l’umanista Leon Battista Alberti, attento a teorizzare quale avrebbe dovuto essere la risposta ai nuovi cannoni, il Sangallo, Leonardo da Vinci e il Brunelleschi. Per restare a Leonardo, proprio l’avere sviscerato nei loro termini matematico-geometrici taluni principi della statica  dava a Leonardo la certezza di potere portare a termine opere di una grandiosità e di una arditezza mai concepite, cosa confermata dal suo lavoro di architetto e di urbanista. Ricordiamo che Leonardo nel 1502 fu al servizio di Cesare Borgia come ingegnere militare e per lui progettò fortezze, bastioni, ponti. Ogni ingegnere e architetto militare introdusse migliorie nel sistema bastionato. Il già citato Tartaglia fu l’inventore della “strada coperta”. Per il Savorgnan, progettista delle fortificazioni di Candia e Nicosia (se questa cadde  nel 1570 sotto l’assalto dei Turchi non fu colpa del Savorgnan), modello per la fortezza di Casale, edificata dal nipote Germanico, la difesa era basata sul totale assorbimento dei colpi di artiglieria ai quali si oppongono elastiche cortine in sola terra battuta ed opere in muratura sottile .

Il nuovo sistema di fortificazione, nato in Italia, si diffuse in tutti i paesi d’Europa e oltre mare, approdando nelle Indie e in Africa, al seguito dei colonizzatori.

Qualche considerazione conclusiva, che ci permette di richiamare le valutazioni di Machiavelli in materia di strategia militare. L’argomentazione 3 a 2 b 3, che escludeva la possibilità di abbassare le mura, è smentita dalle nuove fortificazioni difensive che “avrebbero dovuto non essere più alte e lineari ma basse, profonde e “irregolari, come i denti di una sega”. La difesa muraria si fece quindi spessa e articolata da bastioni angolari: si estese al territorio circostante che venne munito di fossati e trincee [….] Un tale sconfinamento orizzontale era dovuto all’abbandono della verticalità delle alte mura (che permettevano di sorvegliare ed evitare colpi di sorpresa) a causa della aumentata gittata dei proiettili dei cannoni. In questo modo, città come Torino diventarono piazzeforti in grado di controllare fino a 80 chilometri quadrati di territorio circostante” (Lablanca, op. cit., p. 47). L’argomentazione 3 b, che prevedeva la posizione di sfavore di chi si difende negli accampamenti, nei cui confronti il nemico “ricorrendo ai metodi seguiti nel mondo antico” può ostacolare i rifornimenti e devastare le campagne, è smentita dalla creazione, intorno alle città bastionate, di “piccoli capisaldi bastionati per osservare il nemico e il suo approssimarsi, per rendere più difficile e più lento lo schieramento delle sue forze per l’assedio, per proteggere i campi coltivati, le stalle e i contadini esistenti intorno alla città e necessari alla guarnigione e alla popolazione urbana per il loro sostentamento” (Argiolas, op. cit., p. 129).

Contro la tesi poi, più generale, volta a privilegiare, in presenza di artiglieria, l’azione offensiva rispetto a quella difensiva, si impone la tesi opposta che privilegia il momento difensivo: “la difesa acquistò una netta preminenza nella guerra manovrata [….] L’esercitp assalito, trincerandosi in una piazzaforte, poteva bloccare, anche se con forze inferiori, quello assalitore. L’assediante era costratto a uno sforzo logistico, finanziario e militare talmente elevato che, accadde più di una volta, si trovava costretto a togliere l’assedio e a cercare una diversa soluzione del conflitto”. (Id., op. cit., p. 141).

La nuova realtà delle armi da fuoco sollecita infine lo sviluppo e l’affinamento dell’alchimia rinascimentale, avviandola verso il suo futuro in termini di chimica: potremmo concludere che l’alchimia sta alla polvere nera, come la sua evoluzione nella chimica moderna sta alla futura polvere senza fumo.

Guido Galliano

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