Letteratura

«Cesare Pavese e Bianca Garufi: una bellissima coppia discorde»

Un recente, prezioso contributo agli studi pavesiani, ci viene offerto da Mariarosa Masoero, curatrice del volume  Una bellissima coppia discorde: il carteggio tra Cesare Pavese e Bianca Garufi (1945-1950), Firenze, Leo S.Olschki, 2011, XVI-166 pp. con 12 tavv.f.t. La Masoero prosegue in tal modo lo studio dell’uomo Pavese e della sua opera letteraria, studio concretato in più tappe, con la nuova edizione (estate 2003) del romanzo Fuoco grande, scritto a quattro mani con Bianca Garufi nel 1946, strutturato a capitoli alterni – dispari quelli scritti da Cesare, pari quelli di Bianca – rimasto incompiuto e uscito postumo nel 1959, nonché con ulteriori contributi quali: C.Pavese, Le poesie, (a cura di), Torino, Einaudi, 1998; C.Pavese, Il quaderno del confino, Alessandria, Ed. dell’Orso, 2010; Pavese e l’astronomia, Torino, in corso di stampa; C.Pavese, Il serpente e la colomba: Scritti e soggetti cinematografici, Torino, Einaudi, 2009; Giornate pavesiane (a cura di), Firenze, Olschki, 1992.

Chi ha instaurato un rapporto non superficiale con l’opera pavesiana, non ignora il nome di Bianca Garufi, coautrice di quel singolare esperimento letterario che è stato  il romanzo Fuoco grande (ma il titolo originario doveva essere Viaggio nel sangue, “Più consono al contenuto, ma apparentemente poco pavesiano e, nel 1959 come oggi, editorialmente meno conveniente e gradevole di quello adottato – al contrario fin troppo pavesiano, da far subito subodorare la forzatura di un’operazione editoriale”  (G.Peruzzo, La belva, la carne, l’abbraccio, p.16), o Dialoghi di Silvia e Giovanni), scritto, come già detto, a quattro mani, ma interrotto all’XI capitolo e relegato in un cassetto sino alla pubblicazione nel 1959. Di fatto, il romanzo sarà proseguito, sempre con le due voci narranti, da Bianca Garufi e pubblicato nel 1962 col titolo Il fossile. Il nome di Bianca è richiamato ulteriormente nel journal intime del Mestiere di vivere, implicito nelle dolorose riflessioni del consuntivo esistenziale, lucidamente disperato, del novembre 1945, che suona eternamente – ma non è per la suggestione “del periodo tutto mitopoietico e di riflessione sul mito” (R:Gigliucci, C.Pavese, p.122), sotto l’influenza dell’eterno ritorno nicciano? – come ricaduta nella sconfitta dell’uomo Pavese, visto il “ripetersi costante dello stesso schema di vita nella vita di un uomo e la impossibilità di comunione tra uomini e donne” (ibid.), come scrive in data 7 dicembre 1945: “C’è qui un riflesso del ritorno mitico. Quel che è stato, sarà. Non c’è più remissione [….] Tu cerchi [corsivo di Pavese] la sconfitta”

Il nome di Bianca è alluso anche in quei “dialoghetti” ispirati dalle sue sembianze mitiche  “Bianca, Circe, Leucò” e raccolti sotto il “titolo collettivo” di Dialoghi con Leucò, “un libro che nessuno legge e, naturalmente, è l’unico che valga qualcosa” (Lettere, II, p.568). Scrive, in proposito, Pavese in una lettera a Bianca: “il fatto che ormai si chiamano Dialoghi con Leucò mi schiarisce le idee; che ne diresti di dedicarli – a Leucò?” (2 aprile 1946). Bianca è ancora richiamata nella magnifica “alba” del 27 novembre 1945, come la definisce Guglielminetti; “Bianca stessa è l’alba, Leucò [leukôs è bianco, in greco], la candida, colore epifanico ma anche agghiacciante” (Gigliucci, p.123).

Ulteriore richiamo, che quantifica il rilievo assunto dalla donna durante la comune esperienza romana presso l’editore Giulio Einaudi nella seconda metà del 1945 – “nella capitale Pavese aveva il compito di potenziare la sede romana dell’Einaudi perché si era diffusa la convinzione che nella capitale la casa editrice potesse sviluppare una maggiore influenza e allargare più rapidamente il suo raggio d’azione e la conquista di nuovi lettori” (D.Lajolo, Il vizio assurdo, p.311), Bianca svolgeva lavoro di segreteria – è rappresentato da quelle nove poesie intitolate La terra e la morte, scritte a Roma tra il 27 ottobre e il 3 dicembre 1945 e pubblicate nella rivista Le tre Venezie, a Padova, nel 1947, poi, postume nel volume Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Torino, Einaudi, 1951. Scrive, in proposito, Pavese, in data 17 dicembre 1949: “Quel poemetto fu l’esplosione di energie creative bloccate da anni”, punto d’incontro di tre componenti: la persona di Bianca, la esperienza romana – fu sempre affettuosamente legato alla città: “la Roma della seconda parte de Il compagno è una città limpida, calda, aperta, dolce; persino in una lettera da Regina Coeli (8 luglio 1935) si legge: “a Roma, in complesso, si sta meglio che a Torino” (Gigliucci, p.50) – e il “turgore Leucò”.

Chi era Bianca Garufi, quale posto ha occupato nella parabola esistenziale di Cesare, parabola tendenziale, da sempre, nella direzione della discesa silenziosa nel gorgo? Non dimentichiamo il ruolo importante riconosciutole nella triade T. (Tina Pizzardo, la donna dalla voce rauca), F. (Fernanda Pivano, la studentessa di Lettere), B. (Bianca Garufi), citate insieme nel Mestiere di vivere in data 7 dicembre 1945: “E’ già due volte in questi giorni che metti accanto T,F,B. C’è qui un riflesso del ritorno mitico. Quel che è stato, sarà”. Tre donne che hanno inciso, quasi in senso chirurgico, nella vita di Cesare, segnandogli l’anima con tre ferite indelebili dove si riassumono tre sconfitte parallele sul piano di una impossibilità di matrimonio, di creazione di una famiglia, di paternità, di soddisfazione sessuale del partner; tre donne che portano con sé tre date di fallimento: 13 agosto 1937 (pomeriggio), 25 settembre 1940 (sera), 26 novembre 1945 (notte). L’ulteriore, significativa, sconfitta si consuma nelle gelide nevi di Cervinia con Constance Dowling (Connie), l’attrice americana per la quale ha scritto molti soggetti cinematografici, che lo lascerà per un altro uomo, come già avvenuto con la donna dalla voce rauca, la prima della triade T,F,B, segnando “l’eterno ritorno del dolore, della contorsione, della delusione, della fine della speranza” (Gigliucci, p.189).

Bianca Garufi (1918-2006) e Cesare Pavese si incontrano sul terreno della comune esperienza di lavoro presso la sede romana della casa editrice Einaudi. Nasce un sentimento, “qualcosa di più che la passione”, che induce a sperare che la loro “storia” non “somigli alle altre che [Cesare] ha bruciato” (Introduzione al carteggio, p.VI). La corrispondenza tra i due inizia nell’agosto 1945 – lei è in vacanza in Sicilia nella grande casa materna del Settecento a Latojanni, a nord di Taormina – e prosegue nell’autunno, anche se Cesare e Bianca lavorano fianco a fianco e si vedono tutti i giorni.

Il fatto, di per sé singolare, trova una spiegazione se approfondiamo il tema della comunicazione umana: la lettera non è solo un mezzo per colmare le distanze createsi tra due persone, è anche la via per tentare una comunicazione più profonda, più intima, che risolva i problemi “del non detto o del difficile a dirsi” (ibid.), realtà che sottintende la difficoltà relazionale motivata dalla chiusura di uno dei due termini o dall’entropia semantica delle parole.

Più volte e da più critici il nome di Pavese ha richiamato quello di d’Annunzio (cfr., per es., l’intervento di Simona Costa, Pavese e d’Annunzio, in: Cesare Pavese oggi, Atti del convegno internazionale, San Salvatore Monferrato, 1987): ebbene, non dimentichiamo l’abitudine senile del Vate, autoesiliato nel mausoleo del Vittoriale, di comunicare attraverso lettere, bigliettini, con l’universo femminile che gli ruotava intorno negli anni della decadenza fisica; il Vate, padrone assoluto della “parola  poetica” (cfr. Gorgia dell’Encomio di Elena), “l’atomo aereo” persuasivo per eccellenza, ora inaridito nel corpo e nella vena poetica, si affida alla parola scritta per attingere la comunicazione sotterranea che gli sfugge sul piano della oralità, che ora lo tradisce (quando i bigliettini non siano stati puramente informativi, alla stregua degli SMS intrecciati dagli adolescenti, sinonimo anch’essi di vuoto comunicativo). Dunque, certe cose non si possono – o meglio – non si riescono a comunicare sul piano della oralità, ma solo sul piano della scrittura, dove il sintagma può scavare più in profondità per portare alla luce l’elemento di significazione; Cesare ha particolare attitudine in tale direzione, come è attestato quando “ci parla dei ricordi in senso geologico, archeologico, come di stratificazioni sovrapposte, commiste di materiali di scavo, e celanti il tesoro al livello più profondo. Parla di “scavo”, di “giacimenti”, di “filoni” da ritrovare” (M.Verdenelli, in C.Pavese oggi, cit.,p.120).

Non dimentichiamo, poi, che la difficoltà di comunicazione tra uomo e donna è, per usare un suo americanismo, all pervading, oscillando tra piano linguistico e piano sessuale, tra parola e coito, a proposito del quale scrive, in data 15 gennaio 1938, ricostruendo l’aspetto grottesco dell’atto sessuale, non diversamente da Leonardo o Lawrence, “lui fa tutto al di fuori, alla luce del sole; ma nella donna bisogna penetrare, frugare, e tutto accade nelle viscere, nelle radici della carne” (ritorna, nuovamente, il tema della ricerca ctonia). La conclusione, tragica e ineludibile, è l’impossibilità di comunione tra uomo e donna (vedi le riflessioni conseguenti al rifiuto di Gôgnin – termine affettuoso per Fernanda Pivano – di sposarlo, 4 novembre 1938, ma vedi anche “tipologia delle donne: quelle che sfruttano e quelle che si lasciano sfruttare….tutti e due i tipi confermano la impossibilità di comunione umana” (15 ottobre 1940)).

Il  rapporto tra i due è destinato – Cesare insiste sempre sul fatto che  ciò che è stato, sarà, in una eterna ripetizione dell’uguale – a corrompersi: troppo diversi, appunto “una bellissima coppia discorde”, su cui pesa il fallimento intimo, che impedisce la possibilità  del matrimonio, come appare dalla confidenza di Bianca al suo diario in data 13 agosto 1946: “Stasera abbiamo riso amaro su questa faccenda e deplorato ampiamente il fatto che non possiamo sposarci causa quel piccolo particolare dell’amore sessuale”. La strazio dell’estate 1950, quando l’ultimo amore per Pierina (Romilda Bollati, sorella di Giulio Bollati) a Bocca di Magra, “ultima fiamma della candela, l’estremo passo verso il gorgo” (Gigliucci, p.24), si rivela impossibile, lo vedrà scrivere: “Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco?”; “Questa icona dell’alba che scopre insieme gli amanti (o gli sposi) è rovinosa per Cesare, una icona riassuntiva di ciò che gli è negato” (Gigliucci, p.25). Per Cesare, per il quale “in amore conta soltanto aver la donna in letto e in casa: tutto il resto sono balle, luride balle” (28 novembre 1937), l’alba del 27 novembre 1945 suona tragica conferma del ricorrente – ha la fissità del mito – fallimento umano. Scriveva nel 1934 i versi confluiti, poi, in Lavorare stanca: “Fa freddo, nell’alba, / e la stretta di un corpo sarebbe la vita”, versi che celavano un progetto di vita agli occhi di un poeta ventiseienne, sensibile quanto indifeso, anche da se stesso, non dimentichiamo. L’alba del 27 novembre 1945 non lo trova nel letto accanto a Bianca, ma solitario a respirare l’alba nascente nel cielo di Roma “dalle sue finestre della parete accanto” – è la separazione fisica – mentre “dorme Astante-Afrodite-Mèlita” che “si sveglierà scontrosa”, causa “la scheggia nelle carni” (avrebbe scritto Kierkegaard) che lo ha tradito. Cesare annota tragicamente: “E’ venuto la terza volta, quel giorno”, conscio che Bianca si sveglierà delusa, se non umiliata, perché già nel 1937, dopo il fallimento con Tina, aveva scritto che le donne “per la smania, legittima, di quel piacere sono pronte a commettere qualunque iniquità. Sono costrette a commetterla” (27 settembre 1937).

Scrive Gigliucci nel suo dizionario pavesiano, sotto la voce alba: “L’alba è in Pavese per lo più il momento dell’angoscia, mostra il chiarore lattescente della morte, il livore della solitudine” (p.41), e l’alba del 27 novembre 1945 mantiene fedelmente le prerogative negative del colore bianco. Prosegue Gigliucci: “La triade Astante-Afrodite-Mèlita rimanda allora a diverse manifestazioni di un’unica dea, dolce (Mèlita, di miele) e terribile, bianca e agghiacciante come la luna….Bianco è un colore di maestà, spiritualità, ma anche un colore che spaventa, che incute terrore: si veda i capitolo 42 di Moby Dick sulla bianchezza della balena. Bianco è pure il colore “infame” della pelle che i nudisti del Diavolo sulle colline vogliono eliminare dal loro corpo….Bianco è allora il  colore della donna, della debolezza e del femminile malsano e minaccioso” (p.61).

Bianca, la Leucò dei “dialoghetti”, è tutto questo, incarnazione progressiva e ricorrente nella vita di Cesare, epifania di quell’archetipo della “Dea Bianca” (il poeta ha letto The White Goddess di Robert Graves) che troverà l’ultima incarnazione in Connie, l’attrice americana, che è alba, bianca e luminosa, ma sempre anche terra, “la terra che aspetta”, come Bianca che dorme sola, lontana dal corpo di Cesare, e che si sveglierà “scontrosa” dopo una notte di impossibile congiunzione. Franco Mollia, nella monografia su Cesare Pavese, scrive della “trasparenza assonnata di un’alba….per terminare nella nota lugubre di un addio scontato fin dal primo risveglio” (p.21), confermando “un parallelo tra le poesie di La terra e la morte e la nota di diario del 27 novembre” (ibid.). Bianca, protagonista del ciclo di nove poesie, è “terra e mare, e porta con sé la morte, come impenetrabile silenzio….e come buio di solitudini in cui non sorge luce di parole” (ibid.). La “parola pensata” non serve a rompere il muro d’ombra che sta tra lui e la donna:

Come la roccia e l’erba,

come terra, sei chiusa;

……………………….

La parola non c’è

Che ti può possedere

O fermare

………………………

E non dici parole

E nessuno ti parla.

(Poesie, 15 novembre 1945, p.126).

Bianca è come una terra muta e impenetrabile:

E’ una terra che attende

E non dice parola.

(30-31 ottobre 1945).

Il parallelo sopracitato tra i versi de La terra e la morte e la nota di diario del 27 novembre 1945 trova ulteriore conferma nel verso del 5 novembre “per te l’alba è silenzio”. Il silenzio, come assenza di comunicazione, intride l’alba lattiginosa che avvolge Roma quel giorno di fine novembre. Pavese lo vediamo muto alla finestra nella stanza accanto a quella dove dorme Bianca, immersa nel sonno da cui si sveglierà “scontrosa” perché inappagata: potrebbe essere un quadro di Hopper, coi protagonisti congelati in una muta sospensione (il riferimento a Hopper è confermato anche da Gigliucci nel commento alla “metafisica “Piscina feriale“, dove è una piscina estiva in città a farsi teatro di un’attesa irreale di qualche evento che non si verifica, in una atmosfera di immobilità, vuoto, solitudine e stasi inquieta fra De Chirico e Hopper, fra timor panico e tedio ansioso” (p.88).

Siamo così ritornati al nostro punto di partenza, e cioè la ricerca di motivazioni che spieghino il singolare ricorso alla comunicazione epistolare tra  due persone che lavorano fianco a fianco sul posto di lavoro. Cesare incontrerà per tutta la vita difficoltà relazionali tali da impedirgli un rapporto normale, costruttivo, con l’universo femminile – se le donne si innamorano di lui, le rifiuta bruscamente, “non lo lusinga sentirsi amato; lo irrita profondamente, gli suscita la peggiore misoginia” (Gigliucci, p.159) -; l’ultimo schiaffo è nella telefonata del 26 agosto 1950 dall’albergo Roma di Torino – lo troveranno morto la sera seguente – quando la ragazza incontrata nella sala da ballo Gai rifiuta di incontrarlo: “Non vengo perché sei un musone e mi annoi”.

Ma anche Bianca è persona difficile nel rapporto umano, che “non nasconde le proprie debolezze e fragilità” (Masoero, p.VIII), preoccupata di continuo dalle difficoltà finanziarie, pur provenendo da famiglia agiata della aristocrazia siciliana, assillata di continuo da malattie in parte psicosomatiche (sinuvite che la immobilizza nel soggiorno a Uscio, orticaria di origine nervosa, sinusite, depressione ricorrente), incostante nell’impegno professionale (nel gennaio 1946 lascia la casa editrice Einaudi, idem nel maggio 1948, sempre per “concorrenza femminile”, nell’inverno 1948 interrompe la collaborazione con Ernst Bernhard, colui che introdusse la psicoanalisi junghiana in Italia) e per questo più volte rimproverata da Cesare.

La  “bellissima coppia discorde” si separa: il 1 gennaio 1946 Bianca è dimissionaria dall’Einaudi, lascia Cesare a Roma mentre la corrispondenza si intensifica. Nel febbraio 1946 Bianca è a Uscio, ospite della Colonia Arnaldi per cure mediche, Cesare a Roma. Nel giugno 1946 Bianca è a Roma, mentre Cesare è rientrato nella sede torinese dell’Einaudi. Dal 1947 al 1950, Cesare sarà a Torino, Bianca a Roma. In questi anni di lontananza, poche le occasioni di incontro tra i due – si dipana una corrispondenza affettuosa e aggressiva insieme, in piena coerenza col significato di pòlemos che Cesare attribuiva al rapporto uomo-donna. L’infittirsi della corrispondenza risponde anche al bisogno di portare a termine il singolare progetto del romanzo scritto a quattro mani, i cui protagonisti, Giovanni e Silvia, appaiono come gli alter ego di Cesare e Bianca. Scrive in proposito Gigliucci: “Pavese affrontava un’ambientazione meridionale (la Garufi è di origine siciliana), a Maratea, in una campagna asperrima e sanguigna [….] e duro e misterioso è il sangue nelle vene di Silvia, un “sangue contadino e tenebroso”. La donna, che si sarebbe suicidata nel prosieguo del romanzo, risulta davvero un mistero seducente e terribile nelle pagine scritte da Cesare [….] Silvia è subito dea selvatica, marina [….] Una dura Afrodite aurorale e petrosa, ma anche terribilmente umana e carnale [….] una dea meridionale piena di sangue, di sangue spesso, indurito, cieco, caldo” (p. 94).

Come si vede, sono presenti le costanti strutturali del pensiero mitico pavesiano: in primis, il sangue, uno dei “tre momenti dionisiaci della vita umana” (2 luglio 1945); poi la terra, “sei la terra e la morte” (3 dicembre 1945), “terra rossa, terra nera” (27 ottobre 1945), “tu sei come una terra / che nessuno ha mai detto” (29 ottobre 1945), “sei la terra e la vigna” (30-31 ottobre 1945), “come terra sei chiusa” (15novembre 1945); poi l’elemento aurorale, l’alba, l’ora “della disperazione e del suicidio”, secondo Emile Durkheim, (albus è bianco in latino, e Bianca è sincronica del risveglio, momento di tormento per Cesare che aspira al risveglio confortato da una presenza femminile nel letto), che è sì, anche nel linguaggio psicoanalitico, simbolo della purezza, ma è anche, in quanto metafora della donna, in specie nelle liriche per Connie, “vita” e “risveglio”, oltre che alba divina, “alba in cui si manifesta Afrodite, ma proprio per questo è un’alba terribile” (Gigliucci, p.32), Afrodite, nata dalla schiuma (àfros) simbolo di castrazione (l’indiretto voyeurismo presente nei testi pavesiani come Il compagno e La spiaggia, rivelerebbe un complesso di castrazione nell’autore).

Ma è, soprattutto, l’elemento di conflittualità che oppone l’uomo alla donna che il testo di Fuoco grande rimanda all’esperienza legame, tra il 1945 e il 1950, delle vite di Cesare Pavese e Bianca Garufi: “Sempre tra noi s’era creata quella discordia (corsivo mio) scottante e selvaggia, quella rabbiosa tenerezza, che è il rigurgito della campagna divenuta città” (p.50). Come non riportare la parola “discordia” alla lettera chiave del 17 aprile 1946, quella che intitola la ricostruzione del carteggio tra Cesare e Bianca, “una bellissima coppia discorde”?

Il 23 marzo 1946, pur soffrendo atrocemente per una infiammazione delle sinovie pararticolari, Bianca lascia la Colonia Arnaldi di Uscio per Milano (Cesare l’aveva raggiunta a Uscio domenica 10 marzo e si era fermato qualche giorno), con la previsione di fermarsi due o tre mesi: un salto nel buio nella ricerca di un lavoro, anche se “lavoro non ne ho ancora trovato. Ho visto mezza Milano per questa ragione” (14 aprile 1946). Il 17 aprile 1946, citando i vv. 26-27 della poesia Sempre vieni dal mare (la settima del suo breve e intenso canzoniere d’amore per Bianca), “Combatteremo ancora / combatteremo sempre”, Cesare le scrive: “Io trovo molto bello questo maltrattarci insaziabile; è sincero dopotutto e producente. Ciascuno ha i suoi sistemi – noi siamo una bellissima coppia discorde, e il sesso – che dopotutto esiste – si sfoga come può”.

Vediamo di analizzare questo stralcio della lettera, significativo perché ha offerto il titolo alla paziente ricerca della Masoero sulle lettere, inedite, della Garufi. I versi introduttivi “Combatteremo ancora / combatteremo sempre” vanno al cuore del problema: l’autentico senso del rapporto instaurato dall’uomo Pavese con la donna, rapporto che non può essere se non di conflittualità. E’ pur vero, scrive Cesare Segre nell’introduzione al Mestiere di vivere, che “sembra che Pavese si rivolga sempre a donne che, in modo diverso, sono le meno adatte a realizzare il tipo di unione che lui vagheggia”, per cui “si potrebbe parlare di atteggiamento masochistico di Pavese; e simmetricamente sembra che le donne abbiano sviluppato nei confronti di Pavese il loro sadismo” (p. XV) – lascio alla psicoanalisi l’approfondimento di questa disposizione. La conflittualità sarebbe allora legata alla terribilità dell’archetipo di donna di cui Bianca è soltanto un epifenomeno, quella “terra dura e mare” che si compendiano in una medesima realtà “dolcissima ma sanguinosa e durissima”, con la conseguente sconfitta del più debole, cioè Cesare, pronto a definirsi “inetto”; ma è anche vero che il suo intellettualismo sentenzioso dilata e universalizza la portata del conflitto Cesare – donna amata, in questo caso Bianca, in virtù di quella ciclicità (“ciò che è sempre stato, sarà”) che ha la fissità della realtà mitica. Così, l’analisi strutturale della negatività femminile, al di là della facile accusa di misoginia, gli fa scoprire delle costanti comportamentali castranti per l’uomo Cesare come per qualunque altro uomo, portandolo alle apocalittiche, disperate, conclusioni del 9 settembre 1946: “Sono un popolo nemico le donne, come il popolo tedesco”.

Nella specifica conflittualità con Bianca, sempre nella lirica sopracitata, sei mesi prima, aveva definito il senso del loro rapporto “come buoni nemici / che non si odiano più”. Il 18 luglio 1944 aveva scritto: “L’amore è una crisi che lascia avversione”, e il 18 novembre 1945 “Sono tuo amante quindi (perciò) tuo nemico”. In questi anni si sta dunque maturando un tòpos pavesiano determinato quanto feroce, che lo accompagnerà sino alla morte nel 1950: la sotterranea misoginia di sempre si è ora consolidata in lucida teoria del pòlemos che informa il rapporto tra due amanti, poiché l’amore sottintende la sessualità, e nel sesso c’è “la vita e la morte” (cfr. I ciechi in Dialoghi con Leucò), il sesso è “roccia”, realtà durissima e impenetrabile (ibid.), e già nel 1937 scriveva “che la vita sia una lotta per la vita si vede bene nei rapporti sessuali di uomini e donne” (15 dicembre 1937).

La”bellissima coppia discorde” del 17 aprile 1946 trovava una anticipazione nella lettera di Cesare a Bianca, in cura nella Colonia Arnaldi: “io credo che sarà più proficuo tra noi il rapporto amanti-in-lotta, odi-et-amo” (7 marzo 1946) e troverà conferma nella lettera milanese di Bianca a Cesare, tendente a escludere l’amore quale condizione di un sereno rapporto tra uomo e donna: “Decisamente l’amore non c’entra per niente altrimenti non potrebbe esserci questo senso di straordinaria gioia, spontaneità e freschezza nei nostri rapporti” (23 agosto 1946).

Ma non è solo la sessualità l’elemento perturbante, pur restando l’elemento precipuo che ferisce Cesare la notte del 26 novembre 1945, l’ennesimo colpo basso “il colpo basso che ti ha dato Tina lo porti sempre nel sangue [….] Lo sai che ti lascia per questo?” (7 dicembre 1945); la coppia è “discorde” anche per motivi più contingenti, caratteriali, di personalità.

Ferma restando la dicotomia uomo contemplativo-donna pragmatica, sottolineata da Pisolini quale elemento discriminante tra Cesare e il suo universo femminile, dicotomia già teorizzata da Cesare quando scriveva “Le donne hanno una profonda fondamentale indifferenza per la poesia. Somigliano in questo agli uomini di azione – le donne sono tutti uomini d’azione” (14 ottobre 1940), se è vero che Cesare resta fermamente, nella  sua vita e nei suoi personaggi, “contemplativo”, massimamente coerente nella sua disposizione, è altrettanto vero che Bianca, dal punto di vista della sua organizzazione della vita pratica, risulta discontinua se non velleitaria, attirandosi, per questo, come già detto, i continui rimproveri di Cesare. Se Bianca nella sua irrequietezza è eraclitea, Cesare nella sua “monotonia” (“sto anzi teorizzando la monotonia come condizione di ogni validità”: ultima lettera a Bianca, del 3 febbraio 1950) è parmenideo. La irrequietezza di Bianca è testimoniata dalla sua incapacità di mantenere un posto di lavoro, oltre che dagli spostamenti per le città italiane, laddove Cesare resta fedele a due soli modelli: Torino “il più bello di tutti i paesi” (cfr. Estate di San Martino, dicembre 1932) e Roma, luminosa e fiorita, anche per l’incedere di Connie (cfr: Passerò per Piazza di Spagna, 28 marzo 1950).

Ulteriore elemento di rimprovero da parte di Cesare è la dispersività rivelata da Bianca nell’impegno letterario, che la vede autrice di un romanzo, la prosecuzione sempre a due voci, entrambe sue, di Fuoco grande, nonchè di racconti, poesie, un abbozzo di testo teatrale e un diario, e traduttrice dal francese. Come scrive la Masoero nella sua introduzione: “Pavese pretende ciò che egli per primo è disposto a dare, ovvero una dedizione pressoché assoluta alla letteratura; in Bianca egli nota e lamenta “l’andazzo di sfiorare un’occupazione e poi mollarla, more solito”, il voler “fare troppe cose in una volta”, il “servire tanti padroni”, l’essere insomma “un pietra che rotola” e non raccoglie muschio. Bianca passa da momenti in cui è “assetata di scrittura” [….] ad altri caratterizzati da una vera e propria “nausea fisica” per la stessa (le mancate traduzioni di romanzi francesi [in primis: La nausée di J.P.Sartre], chiesti e ripetutamente sollecitati, ne sono una prova lampante)” (p.VII).

Questo rigore di Cesare – riflesso nell’impegno letterario di un più ampio rigore verso se stesso – motiva i ricorrenti rimproveri mossi per lettera a Bianca, come: “E’ quasi un anno ch’io sono convinto che tu non porterai mai niente a termine” (29 aprile 1947), o “Fai una cosa sola, fai una cosa sola, Bianca, e falla bene” (10 gennaio 1948), o ancora, riferendosi all’ennesimo cambiamento di lavoro, “si capisce che sono aggressivo: Tanto per cambiare cambi di nuovo. Sai bene che io esigo fedeltà e monotonia” (23 agosto 1948).

Bianca non ci sta ad essere rimproverata, e a sua volta gli muove rimproveri: “Una volta finalmente non sono pietra che rotola. Peccato però che tu abbia detto una volta questa frase” (12 gennaio 1949) o comunque lo accusa per il tono misogino delle lettere inviate, o per l’atteggiamento assunto nei suoi confronti, come si evince dalla prima lettera del carteggio, inviata a Cesare – che lavora da luglio presso la sede romana dell’Einaudi – durante la vacanza estiva presso la madre, in Sicilia: “Vorrei sapere qualcosa di te, se stai bene, se si ancora così crudele” (30 agosto 1945).

La risposta di Cesare del 3 settembre è sottile e tagliente come è nel suo stile di approccio con le donne, inconsciamente teso ad allontanare la persona cara pur di soddisfare il masochistico bisogno di autopunizione (Massimo Mila lo invitava il 25 luglio 1945 “a non fare l’eautontimoroumenos, che è la specie più stupida di mattana”); le scrive, infatti, “Crudele lo sono ancora certamente, se crudeltà si può chiamare il normale contegno di chi rispetta le donne al punto di non volerne sapere di loro”.

Cesare è rimasto bambino, come lui stesso ammette: “Ciò che distingue l’uomo dal bambino è il saper dominare una donna [….] E poi: Bambini o Adulti si nasce, non si diventa” (20 ottobre 1940), e già tre anni prima annotava: “C’è qualcosa di più triste che invecchiare, ed è rimanere bambini” (25 dicembre 1937), e come un bambino prova un feroce piacere nel distruggere il giocattolo a lui più caro, così Cesare ferisce la persona a lui più cara, nel presente Bianca, con la “solita lettera cinica arcigna desesperada e angolosa” (Bianca a Cesare, 22 aprile 1947), obbedendo alla “libidinale pulsione al sadismo che ogni autolesionista, come lo stesso autore, non può non provare” (Gigliucci, p.157). Plurimi, allora, i rimproveri di Bianca: “Caro Pavese, la tua lettera era brusca brusca e cattiva” (22 febbraio 1946); “la tua ultima lettera, così dura e diffidente, mi ha fatto molto male e mi ha rivoltato contro di te [….] mi dispiace della tua solitudine. Se fosse una cosa così salutare, così come dici sia per te, non avresti quel tono velenoso parlandone [….] Mi hai molto offesa” (8 aprile 1946). Poco prima, Cesare le aveva scritto: “Cara Bianca, lo sai benissimo che quand’io scrivo lettere, maltratto” (26 febbraio 1946).

Esisteva una via di uscita a questi reciproci affondi, sottili e crudeli, che cadenzano l’intero carteggio? La via di uscita è lucidamente individuata da Cesare nella ultima lettera sopracitata, quella che ci porta alla comprensione dello splendido ossimoro “una bellissima coppia discorde”, che ha intitolato il carteggio: “Bruciata la carnale convivenza, con tutto quello che importava di doppia catena, non resta che questo tenerci a rispetto, questo servirci l’uno dell’altro senza infingimenti né doveri assoluti. Se nella dedizione assoluta si apre una crepa, sia pure volgare, sia pure fisiologica, tutta la confidenza diventa problematica e non può sostenersi che a prezzo di un  equilibrio sottile, concorde e discorde [corsivo mio] tollerabile soltanto se spontaneo ogni volta. La dedizione assoluta è un’altra cosa – è il partito preso feroce di essere uno con l’altro, dove non esiste più un problema di vita individuale e si diventa centauri”.

Analizziamola nelle componenti strutturali, costanti che regolano invariabilmente il rapporto uomo-donna. Tutte le posizioni assunte da Cesare a livello teorico, come testimoniato dal Mestiere di vivere, e testardamente difese nella pratica quotidiana con stoica coerenza, appaiono segnate da una dialettica interna negativa che richiama, di riflesso, quella letteratura esistenzialista che Cesare dimostra di conoscere in modo serio, pur nella diversità di tono in quanto orientata in senso spiritualistico-religioso (cfr. per  tali letture: Guglielminetti, Attraverso il Mestiere di vivere, p.LI). Dialettica della contraddizione irrisolta, priva di una sintesi risolutrice, nell’ottica del reale inteso come pòlemos in tutte le interne dicotomie: bambino-adulto, adolescenza-maturità, uomo-donna, attivo-contemplativo, claustrofilia-bisogno di comunicazione, pratico-sognatore dell’azione, amore per la vita-volontà di suicidio, bisogno di sessualità costruttiva-impossibilità di essa, Ceresa-Cesare (cfr. La giacchetta di cuoio nei Racconti), ginofilia-misoginia, paternità moralistica e virtuale (con Fernanda) –paternità reale, solitudine-famiglia, campagna-città, risveglio nel letto vuoto-risveglio  con una donna accanto, e, non ultima, per tornare al testo del 26 febbraio 1946 oggetto della analisi, equilibrio concorde-discorde – dedizione assoluta.

E’ questa, infatti, la dicotomia di fondo del testo in esame, espressa attraverso una tesi e una antitesi: “Bruciata la carnale convivenza [….] doppia catena [….] la dedizione assoluta è il partito preso feroce di essere uno con l’altro, dove non esiste più un problema di vita individuale e si diventa centauri” (tesi), “non resta che tenerci a rispetto, questo servirci l’uno dell’altro senza infingimenti né doveri assoluti [….] un equilibrio sottile, concorde e discorde, tollerabile soltanto se spontaneo ogni volta” (antitesi). L’ablativo assoluto iniziale ci riporta al world of sex – espressione milleriana – al centro della problematica pavesiana, da intendere non in modo riduttivo e immediato come ossessione monomaniaca, ma per il ruolo primario assunto all’interno dell’esperienza umana, dove “non c’è dio sopra il sesso” (cfr. I ciechi, cit.), “sempre equivoco” (ibid.) e per ciò stesso sotterraneo rimando ad una pluralità di simboli. Il participio “bruciata” è immagine poi di una contrazione temporale, quella “fretta” e “rapidità” – la “vecchia storia”, il suo personale “cancro segreto” – tradotta nel consumo subitaneo dell’esperienza intima insoddisfacente per il partner. La “convivenza carnale” (pare di udire una eco biblica) risulta condannata ad un consumo entropico, autorizzando Cesare ad un atteggiamento ambivalente di fronte al sesso, ricercato come momento di comunione con la donna e rifiutato allo stesso tempo come momento di disturbo che rende impossibile la comunione (cfr. 15 ottobre 1940). Il sesso va allora espunto, quale condizione di equilibrio tra l’uomo e la donna; il sesso è male, di cui è radice (quanto pesa la tradizione cattolica di Cesare?), come incomunicabilità e noia (cfr: Mollia, p.25): “perché a ciascuno la propria sorella appare un angelo, un giglio, ecc.? Perché non gli capita di entrare con lei in rapporti sessuali” (5 febbraio 1938); se il sesso è incomunicabilità, è negata la comunione delle anime: “Se tu sei tu, io sono io – il che vuol dire che non so che farmene” (8 aprile 1946).

La matrice sessuale che regola il rapporto uomo-donna finisce per inquinarlo, inquadrandolo nei termini ferrei di “una doppia catena”, preludio di quella “dedizione assoluta” che è, di fatto, una esperienza patologica di vampirismo reciproco. Sospesa la libertà individuale, sospesa la vita individuale in una indistinta unità dei due – in realtà monadi senza finestre – resta un fondo “feroce” a definire la vita di coppia, fondo feroce che rende “centauri” (termine che richiama il realismo pessimistico di Machiavelli). La “dedizione assoluta” comporta “doveri assoluti” che Cesare vorrebbe rifiutare, contrapponendole – questo il momento dell’antitesi – la situazione di un “equilibrio sottile, concorde e discorde”, garantito da disinteresse (d’obbligo lasciare fuori il sesso) e spontaneità (d’obbligo lasciare fuori il sesso, se ricordiamo la riflessione cattiva ma per lui consolatoria: “neanche l’ammogliato ha risolto la sua vita sessuale [….] dopo un po’ viene il disgusto della donna [….] ci si accorge allora che con la donna si sta male ad ogni modo” (8 agosto 1944). Se poi all’iterazione sessuale del rapporto coniugale si somma la preoccupazione di “ogni volta un figlio”, ecco allora la perdita di ogni spontaneità, che deve invece presiedere alla condizione di equilibrio concorde-discorde.

Cesare ha vissuto soffrendo la tensione delle sue plurime contraddizioni: condanna la “dedizione assoluta” in nome dell’”equilibrio concorde-discorde”, ma intimamente aspirava ad essa, alla comunione totalizzante sia della carne che dello spirito, che gli era negata per “una crepa, sia pure volgare, sia pure fisiologica” all’interno della comunione carnale. Forse che la “dedizione assoluta” risulti rifiutata in quanto “nondum matura est”? Chiusa la porta di fronte ad essa, resta solo la possibilità di una “bellissima coppia discorde”, trasportata nel romanzo a quattro mani Fuoco grande, quando Giovanni (Cesare) annota a proposito di Silvia (Bianca): “Sempre tra noi s’era creata quella discordia scottante e selvaggia, quella rabbiosa tenerezza [corsivo mio] ch’è il rigurgito della campagna divenuta città” (p. 50 ).

Ma resta – possiamo ora chiederci – un margine, uno spazio per il momento “concorde”? La risposta è affermativa sul comune terreno del mito. Scrive in proposito la Masoero: “ Fin dalla prima lettera Bianca Garufi usa, come le farà osservare lo stesso Pavese il 3 settembre 1945, un linguaggio “mitologico”, primitivo, “rituale” (p.5). La mitologia è “fatto familiare” legato alla sua infanzia e alla Sicilia, sua terra di origine, con i suoi elementi geografici come “per esempio il vulcano, il terremoto, l’isola, il continente, il mare, il maremoto, le correnti dello stretto, l’Africa, in fondo, oltre l’orizzonte”” (ibid., cfr. Diario, 21 aprile 1947). La stessa Bianca, in una sua del 14 aprile 1946 da Milano, sottolineava la comunanza di miti: “Miti tuoi o miei fa lo stesso. Pregoti notare l’importanza della frase. Possibile che io senta in comune i miei miti e i tuoi?”.

Se per Bianca è la Sicilia la terra di elezione mitica, per Cesare è la Calabria, dove è confinato dall’agosto 1935 al marzo 1936 per ragioni politiche dal regime fascista. Scrive in proposito Gigliucci alla voce “Confino”: “Comunque la terra calabrese è sentita come terra mitologica, luogo di manifestazioni divine” (p.57), riportando una riflessione del 10 ottobre 1935: “Questa sera, sotto le rocce rosse lunari, pensavo come sarebbe di una grande poesia mostrare il dio incarnato in questo luogo” ( qualche eco di questo pensiero si può cogliere in Mito, una delle poesie composte a Brancaleone nel mese di ottobre; inoltre, nelle Lettere (I, p.490) Pavese confermerà la natura mitica del paesaggio di Brancaleone: “I colori della campagna sono Greci”).

Cos’altro lega, in positivo, Cesare e Bianca? Lo stimolo, reciproco, e la influenza sulle scelte letterarie. L’esperienza umana ed intellettuale che ha legato le due anime (il legame dei corpi è irrealizzabile) ha inciso in modo significativo sulla produzione letteraria di Bianca: oltre al romanzo Fuoco grande, ricordiamo i Diari “nati sulla scorta del Mestiere di vivere “(cfr. Masoero, p.IX) e le “reminiscenze pavesiane presenti nelle poesie” (ibid.); ancora più in profondità ha inciso sulla produzione pavesiana, come sottolinea la curatrice nell’introduzione al carteggio: “Se l’influenza di Pavese sulle scelte letterarie della Garufi è fuor di dubbio [….] altrettanto evidente è che      questo incontro si rivelerà per Pavese il più importante e proficuo per la sua scrittura; infatti, egli non solo compone per lei le nove poesie di La terra e la morte [….] ma scopre, grazie a lei dalle sembianze mitiche (“Astante-Afrodite-Mèlita”, “Bianca-Circe-Leucò”), quei “dialoghetti” raccolti poi sotto il titolo di Dialoghi con Leucò” (ibid.).

C’è, poi, un ulteriore elemento che emerge dal carteggio, elemento di sintonia tra due anime travagliate, ed è il riferimento alla “massima sventura”, come Cesare la definisce nel Mestiere di vivere (15 maggio 1939): la solitudine. Il 25 ottobre 1945, entrambi a Roma, Cesare scrive a Bianca un messaggio di una sola riga in cui spicca un laconico “Sono solo, Bianca” (p.13). Il 21 febbraio 1946 Bianca è a Uscio, alla Colonia Arnaldi, e Cesare, da Roma, le scrive: “Qui sono solo e felice” (cfr. Gigliucci: “spesso Pavese desidera la solitudine come un mito eroico”, p.169). Il 23 febbraio 1946 scrive a Bianca, ancora a Uscio, : “sprofondo nella solitudine di chi è ormai un grande spirito del secolo e c’è arrivato perché era solo” (p.38). Il 27 marzo 1946 Bianca è a Milano, dove vive “un’avventura coi fiocchi” anche se “crepa dai dolori”, e Cesare le scrive: “Io qui vivo solo e tragicamente [….] non puoi capire che cosa significhi essere solo tutte le sere” (p.56).

Il carteggio, dunque, ribadisce in parallelo le tragiche, spesso compiaciute, conclusioni che accompagnano tutto l’arco temporale del Mestiere di vivere. Plurime anche le confessioni di solitudine di Bianca: “Sto sempre sola” (14 aprile 1946); “E sono molto felice di essere così sola e sistemata” (termine che allude all’impiego di segretaria della Casa della Cultura di Milano) in data 21 aprile 1946; “Non puoi capire nella solitudine incomunicata in cui vivo” (3 maggio 1946); il 3 giugno 1946 è a Roma dove avverte un esaurirsi della carica vitale: “Forse ciò dipende dalla vita solitaria che ho condotto in tutto questo tempo”; il 2 luglio è a Milano “Sempre più sola e sempre più selvatica e misantropa”; il 24 gennaio 1947 è tornata a Roma, dove afferma di essere “sola come un gran lama”, “condizione” – scrive la curatrice – “a volte ricercata ma più spesso subita”, come dalle testimonianze dei Diari: “Oggi ho sentito la vera solitudine” (11 ottobre 1946); “Ma come fare a vivere, come si può vivere così soli [….]E’ una solitudine senza nome” (24 gennaio 1947). Il 22 aprile 1947 scrive a Cesare, che è a Torino, lamentando “problemi così gravi [….] E d’altronde ho una tale solitudine attorno a me [….]che a volte ho proprio la necessità di parlare con una persona che possa capire sostanzialmente”. Il 29 luglio 1948 scrive di avere “rischiato la morte parecchie volte per suicidio [ulteriore elemento in comune con Cesare] [….] ma soprattutto per solitudine, materiale ed intellettuale” (ma un mese prima aveva riconosciuto nel Diario il suo stato di “grave depressione”). Solitudine rimarcata anche l’anno successivo: “Sono, come forse già sai, da un anno completamente isolata” (12 gennaio 1949). Non dimentichiamo, poi, che Pavese, nel dialogo La belva, il secondo nella composizione dei Dialoghi con Leucò (18-20 dicembre 1945), trasporta molti elementi autobiografici del suo legame con Bianca, caratterizzando Artemide-Bianca come amante della “solitudine selvaggia”.

Possiamo concludere la nostra analisi del carteggio della bellissima coppia discorde con due ricordi postumi di Pavese da parte della Bianca Garufi.

Il primo, riportato dalla biografa di Pavese Bona Alterocca, riflette la implacabilità di Bianca, in quanto donna, pari a quella di tutte le altre donne dell’universo femminile pavesiano, nei confronti di Cesare: “Gli volevo bene, ero affascinata dalla sua cultura ma non innamorata. Era un uomo estremamente cerebrale”. Cinque anni prima di conoscere Bianca, Cesare annotava una amara conclusione aperta sul futuro: “Non c’è idea più sciocca che credere di conquistare una donna offrendole lo spettacolo del proprio ingegno” (31 agosto 1940), conclusione totalizzante che travalicava i confini del caso personale.

Il secondo ricordo postumo di Pavese è datato 31 dicembre 1950: “Ho scritto, su queste pagine, che Pavese si è suicidato? Sì, il 28 (sic) di Agosto. Pavese, sciocco, non potevi farti aiutare? Io forse, adesso, ti potevo aiutare”. Dunque, c’è sempre una sfasatura tra l’uomo e la donna, con buona pace di entrambi.

Mariarosa Masoero, con l’accurata, puntuale ricostruzione dell’epistolario tra Cesare Pavese e Bianca Garufi, ci ha lasciato un pregevole lavoro, occasione di ulteriore riflessione sul caso umano di Cesare Pavese.

Guido Galliano

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